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Da «Educazione fisica» a «Diario di spezie», sorprese e debutti in sala
Cos’è l’amore? E cos’è un film? Perché magari è meglio chiarirsi fin da subito. Alla critica cinematografica di oggi viene chiesto l’arduo compito di misurarsi con film che spesso hanno smarrito l’urgenza narrativa. O peggio: sono convinti di averla. «What’s love?» è uno di questi: pensa di raccontare una storia, in realtà è una sequela di situazioni e inquadrature molto simili, ripetitive travestito da filmetto multietnico «carino». Kaz e Zoe sono un uomo e una donna giovani di Londra cresciuti insieme, vicini di casa ma non di cultura. Lui viene da una famiglia pachistana alla quale stanno a cuore le tradizioni, lei vive da sola e la mamma, una svampita Emma Thompson, è stata mollata dal marito per una donna molto più giovane. Kaz e Zoe si ritrovano a una festa di nozze e lei, documentarista con un certo successo, apprende che Kaz ha deciso di sposarsi con un matrimonio «assistito», la formula aggiornata del matrimonio combinato. Fin dal primo incontro dei due nella casa sull’albero che li ha visti scambiarsi il primo bacio anni prima, lo spettatore sa che finiranno insieme, a dispetto delle differenze culturali che sembrano insormontabili. Prima, però, lo spettatore in questione deve sorbirsi 109 minuti di cliché: Zoe è la classica single che passa da una relazione all’altra perché non vuole ammettere che il principe azzurro che cerca sempre di ridimensionare nelle favole che racconta alle figlie di un’amica, le abitava vicino casa e ha le fattezze di Kaz, che nel frattempo è un oncologo realizzato. Kaz non riesce ad affrancarsi dalla famiglia alla quale ancora non ha saputo confessare il vizio del fumo, figurarsi dir loro che ama una donna non musulmana. E la moglie scelta dai genitori di lui? bellissima, pachistanissima, nasconde un amore al quale rinuncia per convenzione sociale e un’indole alla trasgressione che permette al film anche la digressione in stile Bollywood. Non manca una nonna in sedia a rotelle vestale delle tradizioni, intransigente, pronta però a commuoversi al momento giusto. Le commedie romantiche inglesi alle quali questa accozzaglia di scene è stata paragonata in una sapiente promozione – su tutti, «Notting Hill» – non hanno nulla a che vedere con un film dove non si ride e non si prova nemmeno un guizzo romantico. Né tantomeno si ha voglia di rivederlo più e più volte. Voto: 4. Noioso, ripetitivo, scontato e recitato anche male. Addio.
I precedenti cinematografici e letterari - il libro «La cena» di Herman Koch e i vari film che ha ispirato, tra cui l’italiano «I nostri ragazzi» di Ivano De Matteo, in cui, come in questo, recitava Giovanna Mezzogiorno, o «Carnage» di Polanski – schiacciano un po’ questo film di Cipani che ha il pregio di avere attori che riescono, in qualche modo, seppure non tutti allo stesso livello, a tenere su un film con un’unità di tempo e di luogo che racconta la storia di quattro genitori di tre ragazzini delle medie che vengono convocati dalla preside per un orribile fatto avvenuto proprio nella vecchia palestra dove il film si svolge. Ma al di là di questo il film scritto dai fratelli D’Innocenzo, non ha molto di originale da offrire. Anzi. E la resa registica di Cipani rende plastica questa mancanza di guizzi: lunghi primi piani agli attori, scene a due, dai quali emerge, senza dubbio, un’umanità di colpevoli. I genitori, pronti a tutto pur di difendere i figli pur sapendoli responsabile di una violenza orribile. I figli – che non vediamo – protagonisti di un atto gravissimo e come se niente fossero restano fuori a giocare a pallone. Incapaci, probabilmente per colpa dell’educazione assolutoria ricevuta, di rendersi colto di quello che hanno fatto. Se una colpa questo film si ritrova sulle spalle è forse proprio la mancanza di sorprese. Non tanto sulla colpevolezza dei figli, ma sui “tipi” incarnati da padri e madri: il piccolo borghese arrivista che si crede arrivato, interpretato da Claudio Santamaria, caratterizzato fin da subito negativamente attraverso gli oggetti che rappresentano il suo status – il macchinone, le vacanze alle Seychelles – disvela sé stesso attraverso pregiudizi di ogni tipo, dal colore della pelle alla diversità mentale, al mito della mascolinità italica – la storia in auto con un’altra delle mamme presenti, il racconto della verginità persa proprio tra le quattro mura della palestra – ed è pronto a pagare, con un assegno, pur di far uscire il figlio dall’impiccio. Ma non è il solo meschino. Di fronte alle colpe dei figli anche i genitori adottivi Rubini e Finocchiaro, di estrazione umile, col cagnolino e l’aria vagamente calpestata di persone di «sinistra», non esitano a mettere in scena il peggio di loro, ad abdicare a qualsiasi morale, in una corsa a salvare e salvarsi degna della mancanza di affettività dei loro figli. Ne esce un film a metà, che non trova una sua identità e di cui non si capisce troppo la necessità. Voto: 6. Pulito, senza sbavature, manca però totalmente di originalità e ha troppo l’effetto déjà-vu.
Vedere la musica e ascoltare le immagini. È questo l’intento dichiarato di Egidio Eronico, architetto e regista di progetti sempre dalla forte identità, che in questo si prefigge di filmare un Paese che una consumo di suolo da far venire i brividi anche a chi ha poca o scarsa sensibilità ambientale. Una suite per musica e immagini che trae il titolo da un verso di Vincenzo Monti e ha ben presente l’afflato poetico. Il 20 e il 22 marzo sarà in sala al Giorgione di Venezia (lunedì 20 marzo alle ore 17, 19 e 21.15. Allo spettacolo delle ore 19 saranno presenti il regista e Angela Pomaro del CNR). Se le immagini di paesaggio, girate in un 4K-Ultra HD spettacolare che merita (ed esige) la visione al cinema sono suggestive, là dove il documentario ha più forza è nel filmare il lavoro così come la società l’ha trasformato oggi. Le immagini di fabbrica, di mercati, di catene di montaggio, figlie di una lunga tradizione, assumono esattamente come quelle di paesaggio un tono da canto del cigno, in un Paese che oltre alla propria identità sta perdendo il contatto con il «fare». Coraggioso, non facile, ma a suo modo necessario. Voto: 6,5. Non è il genere di film che si va a vedere per evadere, ma un tuffo nella consapevolezza.
La vita di «Principé» è scandita dalle note che suona in un piccolo pianoforte elettrico nella sua stanzetta di bimba dai colori carichi che presto dovrà lasciare. Perché lo stabile dov’è cresciuta, una sorta di castello- fortezza in mezzo al nulla, sarà demolito per fare largo all’Asse mediano, un’opera infrastrutturale che segna il passaggio dalla Napoli rurale allo sviluppo urbanistico di fine anni ’80. Principé si trucca, ma poi velocemente si toglie il rossetto con una mano facendosi il segno della croce davanti alla statua della Madonna prima di salire a casa. La madre si sforza di fornirle un modello alternativo alla crescita veloce veloce delle ragazze del quartiere, che a 13-14 anni magari aspettano già sciaguratamente il primo figlio. Ma il fuori è più affascinante. C’è Peppino, che ha la sua età e si sente prigioniero di un padre che lo costringe ad accettare il lavoro offerto da un piccolo boss locale, Lello Arena. C’è Ciruzzo, che l’attrae ma allo stesso tempo no, la chiama ma lei si ritrae. E c’è «o’ mariuolo», che rappresenta la vita di fuori dal palazzo, il male, forse, ma inevitabilmente anche un archetipo. Un padre che «Principé» non ha mai conosciuto e Peppino vorrebbe rifiutare. Si gioca tutto sull’ambiguità della linea d’ombra questo film che canta la Napoli dello scudetto dell’87 con i colori e le canzoni degli anni ’80 e tutta la nostalgia inspiegabile che si portano dietro: “Self control” di Raf e le cassette, il Dolce Forno, le magliette sportive. E un’innocenza che si perde e forse si riacquista. Nel mezzo di una città inafferrabile, libera e schiava di sé stessa. Voto: 7. Una favola ambientata a Napoli, con attori bambini che emozionano e un Lello Arena mai così cattivo e ripugnante.
C’è subito l’inquietudine e l’affanno. Toccherebbe al grande chef parlare al microfono dopo che la parola l’ha presa il padre della sposa. Ma qualcosa gli blocca la parola in gola. Lo spettatore di «Diario di spezie» potrebbe parlare di un presentimento. Qualcosa che a pelle non si può spiegare. Una paura mista ad attrazione, il fascinoso sinuoso della tentazione. E così Luca Treves (Lorenzo Richelmy), chef italiano esperto di spezie, si ritrova in auto con Andreas Dürren-Fischer (Fabrizio Ferracane), restauratore, che parla un italiano un po’ strano, come riportato da un altro mondo, come l’italiano della Chiesa o della musica lirica. Cos’è quel viaggio? Per Luca il disvelamento di un mondo in cui non c’è spazio per l’arbitrio. Tutto è già deciso e tutto scorre sul piano inclinato della contaminazione, del perturbamento, della perdita di un’innocenza che forse non c’è mai stata. «Non le viene voglia di romperla?», dice il restauratore a Luca mentre gli mostra la fragilità della tela che deve riparare. Una frase sottile, ambigua, maligna, che dovrebbe mettere Luca sull’allarme, ma che, come nella vita, va a posarsi sul fondo della sua anima, in attesa di rispuntare fuori, come un felino in agguato. Il puzzle che Donati costruisce riesce perché ha due attori – Richelmy e Ferracane – che in questo film offrono di sé le sfumature, i silenzi, gli inciampi, i cedimenti. La partita a scacchi, con un tallonatore stralunato come Rongione, ha bambini come pedine. Il male assoluto è dentro molti dei personaggi che incontrano. E colpisce per il gusto di farlo. Per il gusto di rompere qualcosa di fragile. I dialoghi tra i due, il rapporto che piano piano si sbilancia, si apre, restano dentro lo spettatore. Acquattati. Pronti a uscire quando calano le difese. Anche a distanza di giorni. Voto: 7,5. Una regia lucida, un’urgenza narrativa con dialoghi colti e sempre più rari in un cinema che spesso scende a patti con la sciatteria. Con due attori ambigui ed emozionanti come la notte.
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