Corpo e salute: così è cambiata la forma dell'obesità | Fondazione Umberto Veronesi

2023-03-23 16:40:15 By : Ms. Emily Wang

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Kos, l’isola greca in cui nacque Ippocrate e dove la medicina divenne una scienza. Una storia della medicina perché è la chiave per comprendere l’origine di molte malattie, è il presupposto di successivi approcci clinici e diagnostici e perché è l’intersezione di arte, letteratura, discipline economiche e di varia natura. L’obiettivo: l’uomo al centro della cura con la sua complessità e unicità.

Paola Scaccabarozzi, giornalista professionista, è laureata in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano con una specializzazione all’Università Cattolica in Materie Umanistiche, ha seguito corsi di giornalismo medico scientifico e d’inchiesta dell'Ordine dei Giornalisti. Ha scritto: Quando un figlio si ammala e, con Claudio Mencacci, Viaggio nella depressione, editi da Franco Angeli. Collabora con diverse testate nazionali ed estere. Viaggia instancabilmente per cercare di comprendere un po’ meglio mondi vicini e lontani.

Come accade per moltissime malattie, condizioni patologiche, sindromi o situazioni che predispongono, a loro volta, ad altre malattie, anche nel caso dell’obesità (con tutte le sfumature del caso che ne hanno modificato la percezione nel corso dei secoli), si deve tornare indietro nei secoli per ricostruirne la lunga storia.

E le origini vanno ricercate nell’antica tradizione indiana. Uno dei tre testi fondamentali dell’Ayurveda (termine sanscrito che letteralmente significa “scienza della conoscenza della vita” e costituisce la medicina tradizionale indiana diffusa ancora oggi nel sub-continente) è il testo di chirurgia, redatto, probabilmente a Varanasi, la città più sacra dell’India per gli Induisti e una delle più antiche del pianeta, dal medico indiano Sushruta, nel VI secolo a.C. Si tratta di un volume di 184 capitoli contenente una dettagliata descrizione di 1.120 malattie, 700 piante medicinali, 64 preparazioni a base minerale e vegetale e 57 a base animale. Il testo descrive anche varie tecniche chirurgiche e di riabilitazione. Nella sua opera, le cui copie originali sono purtroppo andate perdute, sono addirittura presenti pratiche che anticipano (di secoli) la moderna chirurgia plastica, a partire, per esempio, dalla ricostruzione del naso, che veniva spesso tagliato ai prigionieri o ai carcerati. Ma non è finita qui, Sushruta era stato in grado di stabilire nessi piuttosto precisi tra condizioni patologiche e l’insorgenza di eventuali altre malattie, proprio come per quanto concerne l’obesita?. Aveva infatti decifrato il legame tra obesità e malattie cardiache e diabete e persino approntato una possibilità di cura. Il più famoso medico indiano dell’antichità raccomandava il lavoro fisico come terapia per la pinguedine.

«Furono poi i Greci - spiega Raffaella Cancello, nutrizionista e ricercatrice presso il Laboratorio di ricerche in Nutrizione e Obesità dell’IRCCS Auxologico Italiano - a riconoscere nuovamente l’obesità come un disturbo medico che avrebbe potuto, a sua volta, farne presagire altri. Un testo del 400 a.C. attribuito ad Ippocrate, infatti, recita che “la corpulenza non e? solo una malattia in se?, ma il presagio di altre” e mette in rilievo anche l’importanza dell’esercizio fisico con questa affermazione: “Non basta mangiare per mantenersi in salute, è necessario anche fare esercizio”». Anche dal punto di vista etimologico, la derivazione dal termine latino obesitas, che indica la condizione di chi e? “grasso, grosso o paffuto”, a sua volta derivato da esum, participio passato di e?dere (mangiare), con l'aggiunta del prefisso ob (per, a causa di), non lasciava dubbi circa il nesso messo in evidenza dagli Antichi tra obesità e stile di vita caratterizzato dall’abbondanza alimentare.

«Nel corso del tempo poi la percezione è mutata» prosegue Raffaella Cancello. «L’obesità, in epoca medioevale, era espressione di opulenza e ricchezza per una ragione estremamente pratica: la maggior parte dalla popolazione lottava quotidianamente contro la scarsità di cibo. Tutto ciò però non in maniera univoca, tanto che il grasso era, al tempo stesso, sinonimo di avidità e gola, uno dei vizi capitali dell’inferno dantesco». Principio, quest’ultimo, evocato anche dai Padri della Chiesa secondo i quali la golosità è la follia della gola e l’intemperanza alimentare è la follia del ventre. Ed è proprio durante il Medioevo che nasce anche lo stereotipo, stigmatizzato nel corso dei secoli, dell’ebreo obeso. È in quel contesto religioso che, secondo Sander L. Gilman, professore di Liberal Arts and Sciences all'Università di Atlanta e autore di “La strana storia dell’obesità" (Mulino, 2011), prende vita la figura dell’ebreo parassita, che ingrassa a spese della società. L’eredità, diretta e semplice da scovare, è quella di tradizione biblica del ricco Epulone.

Gli studiosi di storia della medicina mettono comunque unanimemente l’accento su un aspetto: nel mondo premoderno a essere sotto accusa non è la grassezza in sé per la sua possibile ripercussione sulla salute, ma le sue implicazioni di tipo etico. Ad essere in questione non è, infatti, la salute del corpo, ma quella, ben più importante, dell’anima. Anche se non mancano, contestualmente, tentativi tipici dell’Umanesimo e del Rinascimento, di stabilire misure anatomiche del corpo umano e di trasformare in numeri le proporzioni ideali, come nel caso dell’architetto Leon Battista Alberti (Genova, 14 febbraio 1404 – Roma, 25 aprile 1472). E, a seguire, anche il pittore e incisore Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528) che, in un capitolo dei suoi Vier Bücher von Menschlicher Proportion, cominciò a misurare i corpi sproporzionati perché troppo grassi o troppo magri.

È questa l’epoca della grande svolta, momento in cui l’obesità diventa da peccato una “malattia” e, via via, oggetto di studio e di cura sempre più preciso. Con i suoi passi falsi naturalmente. Cesare Lombroso (Verona, 6 novembre 1835 – Torino, 19 ottobre 1909) che considerò l’obesità come una tara fisiognomica, al pari di molte altre e alla base di disturbi comportamentali di tipo criminale, ne è un esempio eclatante. Le sue teorie, come ben sappiamo, sono diventate supporto pseudoscientifico di politiche razziste e eugenetiche. La linguistica intanto non ha perso l’occasione, come sempre, di creare neologismi di ogni sorta per definire in maniera più dettagliata le mille sfumature e gli stati intermedi tra grasso e magro che prima non avevano un corrispettivo lessicale. Sono nati così diminutivi e accrescitivi: da grassottello a rotondetto, da “in carne”, a corpulento. Fino ad arrivare a paffuto o ciccione.

E dai primi del Novecento nasce anche l’utilizzo della bilancia pesapersone. Si tratta, in realtà di uno strumento ben più antico, ideato da un italiano, il padovano Santorio (Capodistria, 29 marzo 1561 – Venezia, 22 febbraio 1636), medico e fisiologo. Egli la descrisse nella sua opera Ars de statica medicina del 1615. Era allora, al tempo stesso, un interessante esperimento scientifico e un marchingegno degno di un vero e proprio allestimento teatrale barocco. Si trattava nientemeno che di una sedia inserita in uno scranno di legno, sospeso a una fune e legata a un bilanciere graduato. Il bilanciere era talmente grande da invadere un’intera stanza. E pare che Santorio ne fosse così ossessionato (per motivi di studio e ricerca, ovviamente) da passare numerose ore della sua giornata seduto su quello strano aggeggio, valutando così la variazione, anche minime, del suo peso corporeo in relazione all’entità del pasto (nell'immagine, tratta da Historical Medical Books, Claude Moore Health Sciences Library, University of Virginia, McLeod, via Wikimedia Commons)

A un certo punto la definizione di obesità è passata dal “pressappoco” a un’indicazione precisa e tecnica. «Per ragioni pratiche - viene spiegato nel sito dell’Istituto Superiore di Sanità - il peso corporeo è stato utilizzato come un surrogato dell’adiposità, non facile da misurare. Fino agli anni Settanta, l’obesità è stata definita in riferimento al “peso ideale”, calcolato dalle compagnie assicurative come il peso associato a un basso rischio di morte prematura. Negli anni Ottanta, il peso ideale è stato sostituito dal Bmi, l’indice di massa corporea (peso/altezza al quadrato): una persona con Bmi tra 25–30 è sovrappeso, mentre è obesa se il Bmi è superiore a 30. Tuttavia, l’associazione tra Bmi, mortalità e morbilità può variare in differenti gruppi etnici. Studi recenti, per esempio, suggeriscono che la circonferenza addominale sia un indicatore più accurato dell’obesità e del relativo rischio di malattia».

«L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha anche ha recentemente deciso di abolire il termine sovrappeso a favore di "pre-obesità" - precisa Cancello - richiama l’attenzione sull’obesità come patologia cronica invalidante, in costante aumento e che comporta elevati costi sanitari e la definisce un’epidemia globale». Come precisato dall’istituto Superiore di Sanità, il 2000 ha segnato una svolta per l’umanità perché, per la prima volta nella storia, il numero degli adulti in sovrappeso ha superato il numero di quelli sottopeso. Oggi, è ampiamente riconosciuto che l’adipe corporeo rappresenti uno dei principali problemi di salute nella maggior parte dei Paesi del mondo e che l’obesità non sia da considerarsi come una malattia del singolo individuo, ma il risultato di tanti fattori ambientali e socioeconomici che condizionano fortemente le abitudini alimentari e gli stili di vita, determinando una diffusione epidemica dell’obesità stessa.

La lettura dell’obesità da parte del già citato professor Sander L. Gilman pone numerosi e complessi quesiti. Lo studioso, ripercorrendo in “La Strana storia dell’obesità" la percezione storica e culturale della pinguedine, ne sfata miti e i luoghi comuni alla base di possibili psicosi collettive e individuali. La tesi di Gilman è che provvedimenti eccessivamente restrittivi e intolleranti nei confronti degli obesi, rischino di tradursi in potenti ingiustizie e di enfatizzare le tendenze alla stigmatizzazione della diversità. E, anche se oggi il modello medico non si esprime certamente più nelle forme brutali sfociate anche nell’eugenetica, tuttavia l’ossessione “normalistica” potrebbe essere pericolosa. Non dobbiamo infatti dimenticare, sottolinea lo studioso, che il tratto culturale che accomuna le società edonistiche dell’Occidente contemporaneo a quella dell’antica Grecia, è l’attenzione ossessiva nei confronti della cura del corpo, con tutte le declinazioni del caso, fino al all’ossessione della bellezza e dell’eterna giovinezza. I criteri dell’identità biologico-sociale, non scritti in nessuna legge ma non per questo meno operanti, spingono milioni di persone a operazioni di chirurgia estetica spesso rischiose e dolorose. Gilman mette, inoltre, in evidenza i limiti oltre i quali l’intervento salutistico dello Stato rischia di creare nuove e forme di disabilitazione. Quale il limite, infatti, tra la tutela della salute pubblica e il principio liberale per cui un cittadino può essere libero di scegliere il proprio stile di vita (anche se nocivo)?

Gilman sottolinea il rischio di forme di ingiustizia, perché l’obesità non è sempre dovuta al vizio della gola ma dipende spesso da particolarità genetiche e si presenta diversamente nei vari gruppi sociali, con maggiore tendenza, ad esempio, nella popolazione americana di origine afro-americana, discendente da generazioni selezionate, durante i lunghi secoli di schiavitù, a metabolizzare il massimo degli alimenti. Che la deriva possibile sia quella sintetizzata da Erving Goffmann in Stigma, 1968? “In un certo senso, c’è solo un uomo che possa non vergognarsi di sé in America: un giovane, sposato, bianco, cittadino del nord, eterosessuale, protestante, padre, con educazione universitaria, con pieno impiego, di bell’aspetto, alto, in forma e recente autore di un record sportivo. Ogni uomo che non riesca a riconoscersi in questo modello sarà portato, almeno in determinati momenti, a considerarsi senza valore, incompleto o inferiore”.

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