Dal Punjab a Latina, pagare per diventare schiavo

2023-03-23 16:38:38 By : Ms. Lisa Zhang

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Q uando ha iniziato a sognare l’Italia, o meglio, a sognare una fuga dalla povertà del suo paesino in Punjab, Amritpal non aveva idea della rete di sfruttatori in cui sarebbe caduto. Fin dal primo passo, l’ottenimento di un visto per poter arrivare in Italia, ha dovuto pagare cifre enormi contraendo, come migliaia e migliaia di giovani come lui (400 persone al giorno solo negli ultimi 5 anni), debiti che difficilmente riuscirà mai a estinguere.

Una volta giunto a Latina, una delle mete più frequenti per i lavoratori indiani in Italia, le condizioni di lavoro che gli sono state offerte sono infatti al limite della riduzione in schiavitù, e sono costellate di nuovi ostacoli: rinnovo del visto, messa in regola dei contratti, tutte nuove occasioni per finire ancora più profondamente nell’abisso dei debiti con i trafficanti di esseri umani che, assieme alle aziende agricole dell’area, fanno ricchi affari da questa tratta.

Le stesse forze dell’ordine possono fare ben poco per arginare questo problema: le denunce, che dovrebbero partire dai migranti, non arrivano, per paura o per ignoranza dei propri diritti, e la collaborazione con le autorità indiane (che ritengono “criminali” gli stessi migranti che provano a partire) è inesistente.

La comunità di origine indiana che si è formata nell’Agro Pontino inizia appena ora ad organizzarsi, ma già oggi, all’interno, si annidano nuove trappole: fra i “leader” locali della comunità ci sono infatti anche gli alleati dei trafficanti, degli agenti di viaggio, e degli altri intermediari che rendono questo un business milionario.

Abbiamo esplorato questo sistema di sfruttamento in un long form che alterna reportage e  inchiesta .

N el piccolo paese in cui Amritpal è cresciuto, un centro rurale di cinquemila abitanti a un’ora da Jalandhar, nello stato indiano del Punjab, la migrazione è tutto meno che un concetto astratto. Lungo la strada principale, i cartelloni pubblicitari che promettono visti per il Canada e l’Europa sono a ogni angolo.

Metà dei giovani che vivono qui se ne vogliono andare. L’altra metà, se n’è già andata. Ma le verità nascoste dietro il sogno di una vita all’estero, sono molte. Nei Paesi di arrivo – tra cui l’Italia – i debiti, una rete di agenti di viaggio, intermediari e imprenditori locali tengono sotto ricatto migliaia di migranti, costretti a lavorare in condizioni di grave sfruttamento, complice una legge sull’immigrazione farraginosa e controversa. In tanti finiscono a Latina, un’ora a sud di Roma, dove, per pochi euro l’ora, raccolgono frutta e verdura in uno dei distretti ortofrutticoli più importanti di Europa.

Per Amritpal, da bambino, l’Italia era un luogo esotico e, insieme, una promessa: era il Paese da cui alcuni suoi parenti tornavano ogni tanto, sfoggiando vestiti costosi e alla moda. In Punjab, i migranti che “ce l’hanno fatta” fanno di tutto per farlo sapere ai compaesani.

A pochi isolati dalla casa in cui Amrit è cresciuto, un colorato aereo in cemento svetta in cima ad una palazzina a due piani, che è quasi sempre disabitata da quando moglie e figli hanno raggiunto il marito che vive all’estero. Un altro vicino si è fatto dipingere una gigantesca bandiera canadese in bella vista sulla parete esterna della casa: “I am Canadian”, ci ha fatto scrivere ai lati, per non lasciare alcun dubbio.

I primi ad andarsene sono stati i figli delle famiglie più ricche, che avevano almeno un pezzo di terra da vendere o da impegnare per pagarsi il viaggio. Ora a rischiare tutto sono anche le famiglie come quella di Amritpal, che non possiedono nemmeno una casa propria. A 14 anni, Amritpal ha dovuto lasciare la scuola per lavorare e aiutare i suoi, un po’ nei campi e un po’ come muratore. È allora che ha deciso che appena possibile se ne sarebbe andato all’estero.

Nel 2014, a 20 anni, ha deciso che era il momento di provarci sul serio. Non è stato difficile: ne ha parlato con alcuni amici, quasi per scherzo, e loro gli hanno passato il contatto di un uomo, un agente, che vive a Salerno da tempo. Un agente di cui Amrit si poteva fidare, perché la famiglia e la moglie vivono in un paesino poco lontano dal suo.

Senza il diploma, Amritpal sapeva già che il visto studentesco per il Canada per lui non era un’opzione. Regno Unito e Stati Uniti invece, erano troppo costosi, oltre i 25 mila euro. È così che ha deciso per l’Italia: con diecimila euro, è una delle mete più accessibili. Aveva sentito dire dai suoi amici che lì la vita era dura, ma nessuno di loro, in realtà, era mai tornato indietro, quindi non poteva essere così male come dicevano.

Amritpal ha contattato l’agente al telefono, via WhatsApp: «Intanto fammi avere 500 euro e una copia del passaporto, poi ti farò sapere», gli ha detto l’uomo. Si sono accordati sul prezzo totale: otto lakh, circa novemila euro, da pagare quando il visto sarebbe arrivato. L’agente lo ha anche avvertito che doveva avere pazienza e fidarsi. Ci sono voluti più di due anni, ma alla fine, nel 2018, i documenti sono arrivati. Amritpal ha portato il passaporto a un’agenzia di servizi di Jalandhar, a cui si appoggia anche l’Ambasciata italiana. Poche settimane dopo, un uomo di fiducia dell’agente lo ha accompagnato, insieme ad altri quattro ragazzi, a ritirarlo. Su una delle pagine c’era quello che Amritpal desiderava: un visto lavorativo di sei mesi per l’Italia. Ma il passaporto gli è stato subito sequestrato: se voleva averlo indietro doveva prima pagare i novemila euro, come d’accordo.

Amritpal ha fatto di tutto per raccogliere i soldi nel minor tempo possibile: la famiglia ha impegnato un piccolo pezzo di terra e venduto una delle due mucche. Amritpal ha chiesto inoltre prestiti ad amici e usurai. Finalmente, in tre mesi è riuscito a raccogliere la somma – esorbitante per un abitante del Punjab – che l’agente gli aveva chiesto (nella regione il reddito medio pro capite è pari a meno di duemila euro all’anno).

«Non ho mai visto così tanti soldi in vita mia», racconta. «Li ho messi in delle buste di plastica, li ho nascosti nella sella del motorino e in tre viaggi li ho portati alla famiglia dell’agente, come mi aveva detto di fare», racconta Amritpal.

Come l’agente avesse fatto a ottenere il visto e a cosa servissero tutti i soldi che gli aveva dato, non poteva nemmeno domandarlo. E in ogni caso la cosa non lo riguardava. L’importante era che ora, con il passaporto in mano, era finalmente pronto per partire: con gli ultimi soldi rimasti, ha prenotato un biglietto aereo di sola andata, Delhi-Roma, via Istanbul.

Il giorno prima di partire, il padre lo ha accompagnato a comprare dei vestiti e altre cose per il viaggio: «Non voglio che ti ritrovi in Italia senza nemmeno le ciabatte o uno spazzolino da denti», gli ha detto. Poi, insieme, hanno fatto il giro di tutti i gurdwara, i templi Sikh, del paese, come da tradizione in ogni occasione importante.

La mattina dopo il padre lo ha portato in motorino fino a Jalandhar per prendere l’autobus per Delhi, mentre il cugino li seguiva, sempre in motorino, con la valigia di Amritpal. «Normalmente mi sarei pagato un passaggio in auto fino all’aeroporto, ma non avevo davvero più soldi», dice. Quando lungo la strada si è fermato per il pranzo, ormai solo, ha pianto: «Mia madre ha insistito perché portassi con me le verdure e i roti (delle piadine di grano fatte in casa, ndr) che mi aveva preparato, perché lei non si fida del cibo che cucinano nei ristoranti», racconta, commuovendosi ancora al ricordo. «Mi sono domandato quanto tempo sarebbe passato prima che potessi di nuovo mangiare i roti preparati da mia mamma e, soprattutto, non sapevo che non avrei mai più rivisto mio padre».

In India, i Punjabi hanno la reputazione di vantarsi perché nel loro Stato tutto è più grande che nel resto del Paese: le macchine, le case, persino i gelati. Le aspettative di Amritpal sull’Italia erano persino più esagerate, ma sono tutte crollate pochi minuti dopo che è atterrato a Fiumicino, quando ha visto un’Ape car: «In Punjab nemmeno i tuk-tuk sono così piccoli», ricorda con una risata.

Amritpal ci scherza su, ma già allora, pur essendo pieno di speranza, era angosciato dal debito che doveva ripagare, e dalle conseguenze per la sua famiglia se avesse fallito. In aeroporto è andato a prenderlo un conoscente. Mentre guidavano verso Latina, in una mattina d’inverno alla fine del 2018, lo ha subito messo in guardia: «Dimenticati pure i tuoi sogni – gli ha detto gelido -. Qui devi lavorare e basta, con il freddo, il caldo e la fame».

Dietro l’angolo, la vetrina di un’altra agenzia, tappezzata di tricolori sbiaditi, si affaccia sulla strada trafficata. Promettono, in italiano e inglese, nulla osta, ricongiungimenti familiari, pratiche per la cittadinanza e, in generale, qualunque informazione sui documenti per l’Italia. All’interno – un modesto ufficio con una decina di sedie e quattro scrivanie – una nota stampata su un foglio A4 e appesa alla parete con lo scotch, contraddice quanto scritto all’esterno: «Non siamo un’agenzia di collocamento e non offriamo lavori all’estero».

Il titolare, Sanjeev Lamba, parla un italiano praticamente perfetto e con un forte accento del nord. Ha lavorato per cinque anni a Brescia, spiega. Poi, nel 2013, è tornato qui e ha aperto l’agenzia. Nel suo ufficio, oltre alle bandiere italiane, tiene in bella mostra alcuni modellini delle auto della polizia italiana e dei Carabinieri. «Con i visti – assicura anche lui – non abbiamo niente a che fare: ci occupiamo solo di tradurre i documenti e di prenotare i biglietti aerei».

Per verificare, almeno in parte, queste affermazioni, alcune settimane più tardi chiediamo a un giornalista del posto di visitare le due agenzie fingendosi interessato ad andare a lavorare in Italia. A Lamba gli rispondono di stare tranquillo: «Ci sono molti modi per mandarti in Italia», basta pagare.

A Dadra sono più sospettosi, lo fanno attendere a lungo, ripetendogli più volte le stesse domande: chi gli ha parlato dell’agenzia, perché vuole andare in Italia, perché pensa che loro possano aiutarlo… Gli dicono che se vuole sapere qualunque cosa deve prima pagare, per dimostrare di essere veramente intenzionato a partire. L’attesa comunque alla fine paga e il reporter fa conoscenza con due famiglie, in attesa insieme a lui, che stanno concludendo gli accordi per mandare i figli in Italia. Uno di loro ha portato una parte dei soldi: cinque  lakh (seimila euro) che l’agente a un certo punto conta, con discrezione, dietro la scrivania. 

Talhan, India, 2022 – Venditori ambulanti lungo una strada del villaggio di Talhan posano davanti a cartelloni pubblicitari di agenzie di viaggio e centri studio che promettono corsi di inglese e documenti per raggiungere ogni angolo del globo. Cartelloni simili si trovano ovunque nel Punjab, dove migliaia di agenzie offrono visti per l’estero – Foto: Marco Valle

Non sembra troppo difficile quindi individuare chi offre servizi illeciti, ma la polizia locale non sembra troppo interessata: «Se qualcuno è dalla parte del torto sono le persone che cercano di ottenere un visto in questo modo», afferma Neeraja Voruvuru, direttrice aggiunta della polizia del Punjab, per il dipartimento degli indiani non residenti. «Noi siamo agenti di polizia e quello che possiamo fare è agire sulla base delle denunce. Queste persone, che sono migranti illegali, di certo non vengono ad informarci».

Di fatto, senza che nessuno abbia interesse a far luce su questo business, le indagini sono praticamenti inesistenti. Gli unici casi ad essere perseguiti sono quelli delle persone truffate dagli agenti che si rendono irreperibili dopo aver intascato i soldi.

Nel 2012 il Punjab ha approvato una legge per la prevenzione del traffico di essere umani, nel tentativo di regolare un mercato ampiamente fuori controllo. La legge, pensata soprattutto per prevenire le truffe, impone agli agenti di registrarsi e di pagare una tassa governativa.

Secondo Kuljit Singh Hayer, presidente dell’Associazione degli agenti di viaggio del Punjab, PTAA, la legge si è dimostrata abbastanza efficace nel regolare il mercato dei visti studenteschi per il Canada e per altri Paesi in cui esistono procedure chiare e istituzionalizzate per fare domanda di visto: «Grazie a questa legge il nostro lavoro è più controllato – spiega -. Se qualcuno viene da me e mi chiede di procurargli un visto per il Canada, senza avere i requisiti, non posso aiutarlo, o rischio di perdere la licenza». Ma per l’Italia è un’altra storia e la distinzione tra chi ha diritto ad ottenere un visto e chi no, è molto più labile. Soprattutto, non esistono canali diretti per farne domanda.

A riportare l’attenzione sulle condizioni di lavoro e di vita di centinaia di braccianti indiani a Latina, è stata, nel giugno del 2020, una notizia di cronaca: il suicidio di un giovane di 30 anni, Jobandeep. Jobandeep era arrivato in Italia da meno di un anno e lavorava, in nero e senza documenti, per una grossa azienda della zona, l’Azienda agricola Gianni di Girolamo, come IrpiMedia ha ricostruito. Da due mesi non gli veniva pagato lo stipendio. Una mattina si è dato malato: il suo coinquilino lo ha trovato impiccato, poche ore dopo, sulla porta di casa, a Bella Farnia, un residence per turisti costruito negli anni ‘70 dove ora vivono centinaia di braccianti.

Joban veniva da un piccolo paesino non lontano da quello di Amritpal. Era il maggiore di tre fratelli e, come Amritpal, la sua famiglia non aveva terra o altri beni da vendere per pagargli il viaggio, così Joban si è indebitato.

Secondo quanto riferito dalla sua famiglia e dai suoi amici, a procurargli i documenti per venire in Italia sarebbe stato uno “zio” – il grado di parentela in realtà non è diretto – che vive a Latina e con cui Joban aveva un debito di circa seimila euro.

Non è chiaro se lo zio gli abbia procurato direttamente i documenti o se si sia limitato a fare da tramite. Dopo aver rifiutato diverse richieste di intervista, ci conferma di essere stato lui ad aiutare Joban a ottenere il visto, e che Joban, per questo, gli doveva ancora i seimila euro. Nega però – a differenza di quanto sostengono la famiglia e gli amici di Joban – di avergli mai fatto pressione. «Se non lo avessi aiutato io chi l’avrebbe fatto? – dice, al telefono -. E ora smettetela di darci fastidio. Se volete aiutare la famiglia, dovete mandare dei soldi, non scrivere un articolo».

In ogni caso, oltre ai soldi che doveva allo zio, Joban aveva anche fatto dei debiti con gli usurai del suo Paese, anche se i familiari – la madre, il fratello e la sorella – non sono sicuri esattamente con quante persone e per quali cifre, perché, spiegano, Joban ha fatto tutto da solo, senza chiedere il loro aiuto.

Il padre di Joban aveva lavorato per 12 anni a Dubai e più volte aveva sconsigliato al figlio di partire. Ma a giugno del 2019 è morto all’improvviso, per un attacco di cuore. Pochi mesi dopo, a dicembre, Joban – ora capofamiglia – è partito per l’Italia.

A informare la famiglia della morte, è stato lo zio, che lo ha saputo il giorno stesso. Ha chiamato dei parenti comuni in India, che hanno avvertito Baljeet, una cugina molto vicina a Joban e a sua madre.

«Sono rimasta scioccata, non riuscivo a crederci. Non sapevo come dirlo a mia zia, sua madre», racconta Baljeet. «Ho deciso di dirglielo a poco a poco: le ho detto che aveva preso il Covid, che era malato. Solo il giorno dopo le ho detto che era morto».

Nel suo paesino, tutti conoscevano Joban, che dava sempre una mano al tempio, come volontario. Era solare e sempre pronto ad aiutare, ci raccontano. Aveva una passione per i vestiti eleganti, ben fatti, e appena aveva abbastanza soldi si faceva confezionare camicie e pantaloni dal suo sarto di fiducia, a Kartarpur. Sua madre ne conserva ancora con grande cura alcuni. «A volte lo prendevo in giro, o lo sgridavo per questa fissazione – racconta Jaswinder, sua madre -. Ma la verità è che era molto generoso e non ci faceva mai mancare nulla».

Talhan, India, 2022 – Un frequentatore del tempio di Talhan raccoglie i modellini di aeroplano lasciati dai fedeli di fronte al Guru Granth Sahib nella speranza di ottenere un visto per l’estero. Sono più di cinquemila i giocattoli lasciati in questo tempio ogni settimana – Foto: Marco Valle

Talhan, India, 2022 – Bambini pregano presso il tempio Sikh con dei modellini di aeroplano appena consegnati loro dai gestori del tempio. I credenti sono convinti che offrire dei giocattoli di questo tipo possa facilitare l’ottenimento di visti per l’estero – Foto: Marco Valle

Delle condizioni di lavoro in Italia Joban con sua madre non parlava, per non farla preoccupare. Raccontava qualcosa in più solo al marito di sua sorella o a Baljeet: i lunghi viaggi in bici per andare nei campi, il freddo, una cena con appena un pacchetto di biscotti, il lavoro a stomaco vuoto.

«Ogni volta che avevo un problema, le liti con mio marito o una profonda tristezza – racconta Baljeet – era sempre Joban a consolarmi. Mi diceva: anche se non hai nessuno che ti ascolta, abbi fede in Dio, lui ti aiuterà. Non so perché non abbia prestato ascolto ai suoi stessi consigli».

Una richiesta di accesso ai dati della Prefettura per sapere quanti siano stati negli ultimi anni i suicidi di cittadini indiani nella provincia di Latina non ha portato a nulla: «Non rileviamo questo dato», ci è stato risposto. In ogni caso, una breve ricerca tra le notizie di cronaca locale conferma come quello di Joban non sia stato l’unico caso: nel 2021 ci sono stati almeno altri quattro suicidi di persone con una storia simile alla sua. L’ultimo appena pochi giorni fa: il 4 ottobre un giovane di 24 anni si è impiccato ad un albero poco lontano dall’azienda in cui lavorava come bracciante, a Sabaudia.

Molti altri cercano una fuga nella droga o nell’alcol, nonostante entrambi siano fortemente stigmatizzati dal Sikhismo.

Ad accomunare quasi tutte queste storie sono le condizioni di lavoro estenuanti, le paghe basse e i debiti contratti per ottenere un visto.

Oltre al visto turistico (difficilmente concesso a chi ha un passaporto indiano), l’unico modo per entrare regolarmente in Italia è con un visto di lavoro (stagionale o subordinato), a patto di rientrare entro le quote stabilite annualmente dal cosiddetto decreto Flussi.

In pratica, il Testo unico sull’immigrazione, modificato nel 2002 dalla controversa riforma Bossi-Fini, prevede che un datore di lavoro italiano richieda un nulla osta al visto nominale per il lavoratore straniero mentre questo si trova ancora all’estero. La richiesta deve essere supportata tra le altre cose da una proposta di contratto di lavoro e va presentata appena scatta il click-day annuale. Le poche migliaia di posti disponibili vanno esaurite regolarmente in pochi secondi.

Il sistema dei decreti Flussi viene regolarmente utilizzato in maniera distorta in almeno due modi – opposti, ma complementari. Da un lato chi vuole ottenere un visto lavorativo di ingresso è costretto a pagarlo a caro prezzo. Dall’altro, le quote dei flussi vengono utilizzate per sanare la posizione di lavoratori stranieri che si trovano già in Italia, ma con un visto scaduto.

«È semplicemente assurdo pensare che questo sistema possa funzionare in maniera regolare. Sono vent’anni che lo ripetiamo», sottolinea Francesco Mason, avvocato dell’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

«Alla base c’è l’idea, molto discutibile, che la rigidità dei controlli disincentivi l’ingresso», spiega. «Ma un sistema che non prevede la possibilità per i cittadini stranieri di venire qui in maniera autonoma li espone a rischi molto gravi. È chiaro che questo meccanismo non risponde né alle esigenze delle persone ma nemmeno a quelle del mercato del lavoro».

La prova, secondo Mason, sta nel fatto che negli ultimi vent’anni sono entrati in Italia, tramite i decreti, due milioni di lavoratori. Nello stesso periodo sono state fatte ben cinque sanatorie – in teoria uno strumento straordinario – con cui sono state regolarizzate altre due milioni di persone. «Questo significa che i decreti Flussi hanno risposto ad appena metà della domanda di impiego ed è la prova che la rigidità del sistema ha implicato la necessità di trovare altri strumenti, illegali, per tamponare la situazione», conclude Mason.

Insomma, non è una sorpresa che il sistema si basi su agenti e intermediari. Questi però sono solo un pezzo del puzzle e a loro volta si affidano alla complicità di datori di lavoro, consulenti e funzionari.

Durante il click-day, le poche migliaia di posti disponibili vanno esaurite regolarmente in pochi secondi

Le domande di visto che superano il click-day passano in esame all’Ispettorato territoriale del lavoro, l’ITL, e allo Sportello imigrazione della Prefettura, il SUI, che ne devono certificare la regolarità. La procedura richiede mesi e, spesso, non arriva a conclusione prima di un anno, nonostante i controlli si limitino alla verifica della correttezza formale.

Non mancano peraltro i tentativi di “forzare la mano”, come racconta una fonte interna dell’Ispettorato: «Personalmente, non credo esista nemmeno un datore di lavoro che non prenda dei soldi per fare queste domande – afferma la fonte -. Negli anni mi è capitato più di una volta che dei datori di lavoro mi offrissero dei soldi per chiudere un occhio su domande che destavano dei sospetti. Così come altre volte mi è capitato di dover dare l’ok a domande che sapevo non veritiere, ma che formalmente erano ineccepibili».

Una volta che arriva l’ok del SUI e dell’ITL, la Prefettura inoltra il nulla osta al datore di lavoro e all’Ambasciata. È a questo punto che il lavoratore nel Paese di origine può andare finalmente a farsi apporre il visto sul passaporto, tramite l’Ambasciata.

All’ingresso in Italia, sarebbe tenuto a presentarsi in Prefettura con il datore di lavoro per firmare il contratto e fare richiesta del permesso di soggiorno. Ma questo obbligo non è quasi mai rispettato e nessuno controlla che il lavoratore sia effettivamente assunto dal datore che ha fatto la richiesta, conferma il vice prefetto di Latina Domenico Talani.

Sezze, Italia, 2022 – Ceste di fagioli raccolti nell’Agro Pontino e venduti ai mercati a 1,2 euro al Kg. Un lavoratore deve raccogliere l’equivalente di 60-70 ceste al giorno per compensare i costi del lavoro – Foto: Marco Valle

Negli ultimi dieci anni, nella provincia sono state presentate 47.550 domande di visto stagionale. La metà, 26 mila, per cittadini indiani, seguiti dai bangladesi, 15.500. In totale i visti stagionali rilasciati a cittadini indiani sono stati 3.600, ma quanti di questi lavoratori siano stati effettivamente assunti per la stagione non è dato saperlo.

«Un anno ho deciso di provare a farlo io un controllo, incrociando il nostro database con quello dell’Inps, per cercare di capire quanti lavoratori per cui era stata fatta domanda di visto erano stati poi contrattualizzati: su 7.500 meno di un migliaio», afferma la fonte vicina all’Ispettorato.

Decine di tentativi, in oltre tre mesi, per ottenere un’intervista con la direttrice dell’Ispettorato di Latina, Annamaria Miraglia, sono andati a vuoto. In una breve conversazione telefonica si è limitata a farci notare che «quella indiana è una comunità molto chiusa, non vogliono essere aiutati», riferendosi al fatto che i lavoratori durante le ispezioni raramente denunciano le condizioni di sfruttamento che sono costretti a subire. D’altra parte le carenze dell’ITL, che dispone di appena qualche decina di ispettori, sono note.

L a provincia di Latina, meta di lavoratori Punjabi da oltre trent’anni, ospita oggi la più grande comunità in Italia, con 13 mila indiani ufficialmente residenti, e probabilmente alcune migliaia irregolari o non residenti. Con circa 20 mila aziende agricole e una stagione di raccolta di oltre dieci mesi l’anno, è un importante punto di ingresso per i lavoratori che non conoscono la lingua e che sono disposti a lavorare alla giornata anche per pochi euro, raccogliendo zucchine, melanzane, rape e kiwi, poi venduti in mezza Europa.

Per i primi mesi Amritpal ha dormito in una baracca in mezzo ai campi, lavorando alla giornata. Il lavoro nei campi era molto più duro e mal pagato di quanto pensasse: «Tramite un altro indiano ho trovato subito lavoro nella raccolta. Mi avevano promesso cinque euro l’ora, ma a fine turno l’intermediario mi ha detto che ero troppo lento e mi avrebbe dato solo tre euro», dice. Normalmente si lavora dall’alba al tramonto, che in estate significa anche 12 ore di fila, senza contratto: «Ti svegli alle 4 e alla sera riesci a malapena a mangiare qualcosa prima di crollare sul letto. All’inizio ho perso molto peso», spiega.

Da qualche tempo Amritpal si è trasferito in un appartamento a Borgo Hermada, dove, per 100 euro al mese, divide una stanza con altri quattro lavoratori. Ogni tanto riesce a guadagnare anche 600, 800 euro al mese, ma a tre anni di distanza gli restano ancora da pagare quattromila euro. Intanto, il suo permesso di lavoro è scaduto e sta pensando di accumulare altri debiti per ottenerne uno nuovo, perché, gli hanno detto, così potrebbe ottenere delle condizioni di lavoro migliori. Per un nuovo visto l’agente gli ha chiesto circa seimila euro.

«Venendo qui, pensavo di poter garantire un futuro diverso alla mia famiglia, far sposare le mie sorelle, comprare una casa. Ma finora non ho ottenuto nulla, ho a malapena ripagato una parte del debito», dice Amritpal. Nonostante le difficoltà, ha ancora speranza, ma ci sono giorni in cui lo sconforto prende il sopravvento.

Nonostante la pressione e lo stress con cui fa i conti ogni giorno, Amritpal non ha intenzione di denunciare, non ha fiducia in questa opzione e non pensa di poter ottenere nulla così. Ad aprile però ha deciso di partecipare a una manifestazione, organizzata non dai sindacati ma da Gurmukh Singh, presidente della comunità indiana del Lazio e leader della comunità Sikh di Borgo Hermada, dove partecipa tra l’altro alla gestione del tempio.

In un pomeriggio primaverile ma piovoso, oltre duemila lavoratori da tutta la provincia si sono ritrovati nel piazzale degli autobus di Latina e da lì hanno sfilato per la città, fino a raggiungere la Prefettura, sventolando le bandiere azzurre della Comunità indiana del Lazio che alcune persone vicine a Singh hanno distribuito all’inizio della manifestazione. Singh, occhiali da sole a specchio e microfono in mano, alla testa del corteo, ha ribadito più volte le richieste alla base della manifestazione: permessi per tutti i lavoratori senza documenti, una nuova sanatoria, ricongiungimenti familiari semplificati e cittadinanza per i nati in Italia.

Singh, che è arrivato in Italia nel 1991 e per decenni ha lavorato nei campi come bracciante, negli ultimi anni ha guadagnato una certa fama, presso le autorità locali e non solo. A Borgo Hermada, oltre al tempio gestisce due negozi di alimentari e sta per aprire un ristorante.

Sui social, TikTok e Facebook soprattutto, pubblica spesso video in cui si mostra impegnato nel risolvere i conflitti tra i lavoratori e i datori di lavoro locali. In uno di questi video, pubblicato di recente, si filma a bordo del suo SUV insieme ad un lavoratore che ha “salvato”, e che lo ringrazia profusamente per avergli finalmente fatto ottenere i soldi che il datore di lavoro gli doveva da settimane. «Tutte le sorelle e fratelli indiani sono la mia famiglia», dice Singh nel video. «Se avete un problema, chiamatemi. Avete il mio numero». In queste mosse la Flai vede una pericolosa privatizzazione delle lotte sindacali.

A novembre 2021, un altro episodio di cronaca ha gettato una luce sinistra sulla provincia di Latina, rendendo evidente il clima di paura e intimidazione all’interno della comunità Punjabi. Sumal Jagsheer, 29 anni, è stato ucciso a casa sua mentre festeggiava la nascita (in Punjab) del figlio, durante un raid di un gruppo di suoi connazionali «dedito – secondo gli investigatori – a compiere spedizioni punitive nella comunità indiana». Gurmukh Singh, che si trovava lì per la festa, insieme a decine di altre persone, era andato via poco prima del raid, e si è presentato spontaneamente in Questura per una deposizione. Nove persone sono state arrestate e sono in attesa del processo.

Il movente della spedizione punitiva e dell’omicidio non è chiaro: forse un regolamento di conti o il tentativo di affermare il controllo sul territorio. Secondo quanto ricostruito dalle prime indagini, comunque, non si è trattato di un episodio casuale né isolato. Se è vero che la comunità Punjabi è un punto di riferimento e di appoggio fondamentale per i lavoratori che arrivano in Italia senza conoscere la lingua né il territorio, è però sempre all’interno che agenti e intermediari si muovono per realizzare i loro traffici. E sono soprattutto loro a beneficiare del clima di intimidazione e di omertà.

Alcune recenti indagini della Procura di Latina hanno coinvolto direttamente, tra gli altri, anche un ispettore del lavoro ed un dipendente del SUI. I casi, noti come Commodo e Ascaris sono ora a processo, ma le difficoltà nell’arrivare a sentenza non sono poche.

Nel suo ufficio in Procura, Daria Monsurrò è circondata da decine di faldoni, che sommergono la sua scrivania e si accatastano sul davanzale. Monsurrò lavora a Latina come pubblico ministero da oltre dieci anni e di casi relativi allo sfruttamento e alla tratta dei lavoratori indiani ne ha seguiti personalmente decine.

«Il primo procedimento del genere l’ho seguito nel 2013, appena arrivata. Riguardava i reati di immigrazione clandestina, favoreggiamento e permanenza illecita. Ed ebbi l’ardire di contestare l’associazione a delinquere a danno dei migranti indiani coinvolti», racconta Monsurrò.

Dal 2015 ad oggi i procedimenti iscritti nella procura di Latina in base agli articoli sullo sfruttamento dell’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani sono 132, di cui 22 contro ignoti. Quelli legati alla falsificazione dei visti e dei permessi di soggiorno sono invece 56.

«Queste indagini partono solo in due modi: o da un segnalazione di un ufficio che rileva un’anomalia nelle domande di permesso (ma succede molto raramente), oppure dalla denuncia di un migrante che decide di testimoniare», spiega. In ogni caso, raccogliere le prove documentali per portare questi casi a processo è molto complesso: «I pagamenti si fanno sempre in contanti, senza ricevute. In pratica, il grosso delle indagini si basa su intercettazioni telefoniche e ambientali», spiega Monsurrò. Ma questo presenta ulteriori difficoltà: molte conversazioni telefoniche non si riescono a intercettare perché avvengono su Whatsapp o Messenger. Spesso, poi, le persone coinvolte parlano un dialetto molto stretto e usano un gergo pieno di soprannomi e parole in codice.

In ogni caso, le indagini non si spingono mai oltre confine: «Ci è capitato più volte di intuire il coinvolgimento di agenti in India. In alcuni casi avevo indizi di minacce contro la famiglia dei migranti, per ottenere dei soldi. Ma a causa della scarsità di mezzi e in mancanza di accordi di cooperazione con la polizia indiana non siamo in grado di procedere», spiega la pm.

Monsurrò però non ha dubbi: si tratta di un sistema, una “consorteria criminale” in cui le figure coinvolte sono sempre le stesse. «Ci sono sempre un intermediario indiano, un consulente del lavoro o un commercialista che sanno come districarsi nella normativa, e un datore di lavoro che fornisce i documenti necessari. I soldi che l’agente si fa dare sono sempre distribuiti tra queste figure», spiega.

Questo stesso schema è emerso anche in uno dei pochi procedimenti arrivati a sentenza: a marzo del 2022, la Corte d’assise di Latina ha condannato in primo grado 21 tra intermediari indiani e imprenditori italiani: un caso da manuale della rete di sfruttamento e traffico dei permessi. Le vittime – stimate in centinaia – avevano pagato in media 15 mila euro a un trafficante indiano per ottenere un visto, tra il 2007 e il 2011. I soldi sono stati in parte pagati per retribuire gli imprenditori complici che fornivano un contratto di lavoro. I lavoratori migranti si trovavano così sommersi dai debiti e in alcuni casi sfruttati dagli stessi imprenditori. Il pm aveva chiesto una multa da 96 milioni di euro contro 13 imputati – calcolati in base al guadagno ottenuto attraverso la vendita dei visti e lo sfruttamento. Il giudice ha poi confermato multe per un totale di 15 milioni.

Come in molti altri casi, le indagini che hanno portato a questo processo sono partite dalle denunce di alcuni migranti truffati. Arrivare ad una denuncia è un percorso disseminato di ostacoli, anche a causa della scarsa integrazione di parte della comunità Punjabi a Latina. Una mancata integrazione che, secondo Laura Hardeep Kaur, a differenza di quanto sostiene l’ITL o la Prefettura non è imputabile ai lavoratori migranti: «È una precisa responsabilità delle stesse autorità italiane che se ne lamentano», dice, ed è sempre la scarsa integrazione che espone i migranti indiani allo sfruttamento da parte dei datori di lavoro e degli intermediari.

«La legge sull’immigrazone e il modo in cui (non) funziona il decreto Flussi, sono parte integrante del problema», afferma Kaur che lavora per la Flai di Latina, il sindacato di categoria della Cgil per i lavoratori agricoli.

Kaur conosce bene, grazie al suo lavoro, situazioni come quella di Joban o di Amritpal. Per lei, figlia di un lavoratore arrivato dal Punjab circa 40 anni fa, è anche una questione personale: «I lavoratori indiani sono spesso in una situazione di grande vulnerabilità e ci vuole coraggio a denunciare lo sfruttamento», spiega.

Parte del suo lavoro è anche supportare chi decide di denunciare. In due casi recenti il percorso si è concluso positivamente: «Due lavoratori si sono rivolti a noi perché erano stanchi di avere a che fare con gli agenti e non riuscivano a trovare un lavoro a condizioni decenti. Entrambi hanno denunciato e testimoniato al processo. Ci sono stati degli arresti e hanno ottenuto un permesso di soggiorno per motivi di giustizia», dice Kaur. Ottenuti i documenti però si sono trasferiti lontano da Latina, al nord, visto che qui ora sono considerati persone che creano problemi, da parte della loro stessa comunità.

Tutte le associazioni che operano sul territorio si scontrano con le stesse problematiche: spesso i migranti Punjabi hanno paura anche solo di farsi vedere nelle vicinanze degli sportelli gestiti dalle associazioni. I pochi che decidono di denunciare lo sfruttamento spesso cambiano idea a metà strada, come è successo a due lavoratori assistiti da Parsec tra il 2021 e il 2022. Inizialmente inseriti in un programma di protezione, sono stati spostati in un alloggio sicuro, fuori dalla provincia. Ma dopo poche settimane hanno cambiato idea e hanno entrambi lasciato il programma. Il perché non è chiaro.

«Non mi sorprende che in alcuni casi gli agenti usino le minacce per indurre i migranti a ritirare la denuncia», afferma Marco Omizzolo, attivista e sociologo che da oltre due decenni lavora a stretto contatto con la comunità Punjabi di Latina. «Sono capitati anche a noi casi del genere: intimidazioni verbali, telefonate insistenti, minacce alla famiglia, a volte anche offerte di denaro: ed è devastante, perché se alla fine il migrante che ha denunciato cambia idea e si ritira, ne va anche della tua credibilità come associazione, nei confronti delle forze dell’ordine». Omizzolo non è nuovo neanche a minacce dirette nei suoi confronti: dal 2018 è sottoposto a un regime di vigilanza e per precauzione vive fuori dalla provincia.

Lavinio, Italia, 2022 – Due lavoratori Punjabi riposano dopo una giornata di lavoro. Hanno speso tra i duemila e i settemila euro per pagare i trafficanti e raggiungere l’Italia, cifre pagate vendendo terreni o animali da allevamento, oppure facendo ricorso a parenti e strozzini. In Italia accettano qualsivoglia impiego pur di ripagare il debito accumulato. Una volta in Italia molti si adoperano per raggiungere altri Paesi, coltivando il sogno di una vita migliore ma accumulando ulteriori debiti – Foto: Marco Valle

A preoccupare Omizzolo è anche il ruolo sempre più prominente di alcuni leader locali: «Vanno a trattare direttamente con il padrone e magari evitano che un lavoratore possa denunciare. Agiscono nell’ambito di un sistema opaco e ricattatorio, che è esattamente la contraddizione di tutto il percorso di emancipazione, di lotta e di trasparenza che si è cercato di fare in questi anni – spiega Omizzolo -. I leader stanno riportando tutto questo all’interno di una trattativa privata, gestita tra loro, per i loro interessi».

E gli interessi in quest’area sono enormi. La frutta e la verdura coltivate nella provincia di Latina non solo sono direttamente esportate all’estero (nel 2020 le esportazioni di prodotti agroalimentari sono state pari a circa 1.143 milioni di euro), ma vengono anche vendute tramite il Mercato ortofrutticolo di Fondi, il MOF, uno dei principali mercati ortofrutticoli all’ingrosso in Europa. Diverse inchieste dell’antimafia hanno accertato la presenza, all’interno del MOF, di organizzazioni di stampo mafioso, legate alla ndrangheta.

Il business delle agromafie in Italia, secondo quanto calcolato dall’Eurispes, ammonta nel 2019 a 24,5 milioni di euro, in crescita del 12,4% rispetto all’anno precedente. «Come si arriva a questa cifra? – si chiede Omizzolo – Non può essere solo il frutto dello sfruttamento lavorativo: ci sono anche il riciclaggio internazionale, la tratta e la sofisticazione alimentare, grazie a sistemi mafiosi o para mafiosi».

Questo complesso sistema di interessi, spiega Omizzolo, è uno dei motivi per cui per i migranti Punjabi è così difficile opporsi allo sfruttamento. Con la sua associazione, Tempi Moderni, anche Omizzolo supporta le persone che decidono di denunciare. E, tra le altre cose, è anche grazie al lavoro di Tempi Moderni che la morte di Joban ha assunto una rilevanza nazionale: a lui l’associazione ha deciso di intitolare un progetto di contrasto allo sfruttamento, il progetto “Dignità per Joban Singh”.

Talhan, India, 2022 – Gurpreeth, 27 anni, è in attesa di un amico presso il tempio Sikh. Nei mesi precedenti aveva portato in offerta un modellino di aeroplano come augurio propiziatorio per ottenere un visto per il Canada. Ora che l’ha ottenuto, ripete la medesima processione nella speranza che i suoi amici abbiano lo stesso successo – Foto: Marco Valle

A seimila chilometri di distanza, nel villaggio di 1.500 persone in cui Joban è cresciuto, tutti i bambini sanno qual è la casa di “zio Joban”. La maggior parte delle persone che vivono qui sono lavoratori alla giornata, che si guadagnano da vivere come braccianti nei campi circostanti o come manovali in città, a Kartarpur o a Jalandhar.

La madre di Jobandeep, Jaswinder, non si è mai completamente ripresa dalla morte del figlio. La casa in cui vive è la stessa in cui Joban è cresciuto: due stanze senza finestre, al piano terra di una strada stretta, con lo scarico fognario a cielo aperto. Hasandeep, più piccolo di Joban di un anno, vive insieme alla moglie nella stessa casa, ed è stato lui a dipingere le pareti di un azzurro acceso, decorato con dei motivi in bianco.

L’altra sorella di Joban, Kirandeep, 24 anni, da quando si è sposata vive in un villaggio vicino, con il marito. Da poco ha avuto un figlio, Dilraj, nato 8 mesi dopo la morte di Joban. Tutti concordano che sia uguale allo zio.

Il ricordo di Joban suscita tra i suoi familiari tanti sorrisi, oltre alle lacrime. Il suffisso “deep”, aggiunto al suo nome, significa “luce” e tutti quelli che lo hanno conosciuto ricordano Joban come una persona generosa e allegra, che sapeva far divertire tutti. In un video, al matrimonio di sua sorella, si vede Joban che a un certo punto si mette a ballare in mezzo alla sala. Per prenderlo in giro, qualcuno gli butta addosso una dupatta rosa – la sciarpa tradizionale che spesso le donne indiane portano sul capo o sulle spalle. Joban se la avvolge intorno alla testa e continua a ballare, facendo ridere tutti.

Quando è morto, la famiglia non aveva abbastanza soldi per il rimpatrio della salma: Joban è stato cremato a Latina e le sue ceneri sono state sparse in mare. La famiglia ha seguito la cerimonia via Whatsapp. Non sapevano dell’iniziativa che oggi porta il suo nome: «Ho sempre avuto la sensazione che Joban fosse ancora vivo, in qualche modo, ora so perché», dice sua cugina Baljeet.

Il debito di Joban è ancora da ripagare. La famiglia sopravvive grazie al poco che Hasandeep riesce a guadagnare come muratore alla giornata. Dicono però di aver ricevuto, tramite un intermediario indiano, i duemila euro di stipendio arretrato di Joban. «Li abbiamo usati per sistemare una parte della casa: era il desiderio di Joban – spiega la madre -. Speriamo che ora che il suo sogno è in parte realizzato, la sua anima possa riposare in pace».

Doaba, India, 2022 – Kirandeep, 24 anni, mostra una foto di suo fratello Jobandeep morto suicida nel 2020 nella residenza Bella Farnia Mare, a Sabaudia, un’area di “case vacanza” costruita negli anni ’70 e oggi diventata una “banlieu” per i lavoratori Punjabi. Jobandeep aveva debiti per settemila euro, denaro utilizzato per ottenere i documenti di viaggio e un impiego – senza contratto – in Italia. Sono avvenuti almeno tre altri suicidi nell’Agro Pontino nel 2021 da parte di persone che vivevano in condizioni simili a quelle di Jobandeep – Foto: Marco Valle

Doaba, India, 2022 – Hasandeep, 29 anni, lavora come muratore e decoratore. Le responsabilità sulla famiglia e gli introiti per mantenerla cadono ora su di lui, dopo la morte di suo fratello Jobandeep tra i campi dell’Agro Pontino. I debiti accumulati per raggiungere l’Italia sono stati “ereditati” da Hasandeep il quale fa di tutto per saldarli – Foto: Marco Valle

Amritpal, intanto, continua a lottare per un futuro migliore, e sta accumulando ulteriori debiti pur di realizzare un sogno molto simile a quello di Joban: una casa e un futuro migliore per la famiglia.

Sua madre e sua sorella maggiore, Ritu, sanno che la vita per Amritpal in Italia non è semplice, anche se non conoscono i dettagli. Quello che sanno per certo è che per mesi Amrit non è riuscito a mandare a casa neanche un euro.

Ritu, 29 anni, è una donna decisa ed estroversa, che difficilmente accetta un “no” come una risposta. L’opposto di sua madre, Surinder, una donna esile e riservata, costantemente assorbita dal lavoro per mandare avanti la casa: all’alba munge l’unica mucca che è rimasta alla famiglia, vendendo il latte per poche rupie. Pulisce la stalla, cucina per i cinque figli, lava i panni e tiene in ordine la casa.

È notte inoltrata quando finalmente riesce a stendersi sul letto che divide con le due figlie.

Ritu sta cercando un modo per andare all’estero, soprattutto da quando nel 2021 il padre, Santokh, è morto e la situazione economica della famiglia è ulteriormente peggiorata. Mentre parlano, sedute sul letto, la lancetta dei secondi di un orologio da muro rotto, continua a ticchettare avanti e indietro – proprio accanto alla foto del padre.

«Il sogno di mio padre era quello di costruire una casa per noi. Ma ora che è morto – dice Ritu, usando una parola in Punjabi, “poore”, che letteralmente significa “completo” – il suo sogno è rimasto incompleto». Quando era piccola, Ritu diceva, scherzando, che da grande anche lei avrebbe avuto una casa con un grande aeroplano di cemento sul tetto.

«Ora dell’aeroplano non mi importa più molto. Mi interessa solo realizzare il desiderio di mio padre e assicurare a mia madre un tetto decente», dice. Quello che non sa, o che forse non vuole sapere, è quanti sforzi e quanti debiti ci vorranno ancora, prima di riuscirci.

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