DAL NOSTRO ARCHIVIO/In occasione dei 20 anni dall'inizio dell'invasione dell'Iraq - Seconda Guerra del Golfo, pubblichiamo "Torture Act", un documento comparso su MicroMega 4/2004. La cronistoria dettagliata del crimine commesso dai vertici USA.
«Comunque, io sto in piedi 8-10 ore di seguito. Perché loro non possono stare in piedi più di 4 ore?». «Loro» sono i detenuti della base navale di Guantanamo, a Cuba. Chi scrive è Donald Rumsfeld, segretario del dipartimento di Difesa americano. L’annotazione è scritta a mano a margine di un memorandum (2 dicembre 2002) (1) con cui Rumsfeld approva alcune «tecniche» di interrogatorio – tra cui le «stress positions», come lo stare in piedi, per un massimo di quattro ore – da utilizzare nei confronti dei prigionieri della guerra al terrorismo. Tra febbraio 2002 e aprile 2003 una serie di documenti governativi, alcuni dei quali desecretati lo scorso giugno, studiano analiticamente e con una perizia certosina le tecniche di interrogatorio migliori per tirare fuori il maggior numero di informazioni possibili ai «combattenti nemici» catturati nel corso della guerra al terrorismo che ha motivato l’invasione dell’Iraq. «Tecniche» i cui effetti sono nelle drammatiche parole di molti prigionieri di Abu Ghraib, di Guantanamo e degli altri centri di detenzione statunitensi in Afghanistan e in Iraq. Alcune delle loro testimonianze, spesso più agghiaccianti delle foto che hanno sconvolto il mondo lo scorso aprile, sono pubblicate in questo numero di MicroMega, alle pagine 276-298. La nazione che vuole portare libertà e democrazia nel mondo non si è trovata improvvisamente in un incubo creato da qualche soldato esaltato e qualche comandante compiacente. Quell’incubo era stato voluto e preparato (e rigorosamente tenuto segreto) dal governo. Il disegno si compone di tre momenti essenziali che, come cerchi concentrici, si implicano a vicenda. Innanzitutto si provvede a concentrare ogni potere decisionale sulla guerra al terrorismo nelle mani dell’esecutivo. Successivamente si sottraggono i sospetti terroristi alle tutele non solo della legislazione internazionale, ma anche di quella statunitense. E dulcis in fundo si stabiliscono le regole per gli interrogatori. L’ultimo passo non sarebbe possibile senza i primi due. Ricostruiamo qui le principali tappe di questo percorso che dal World Trade Center di New York ha portato ad Abu Ghraib. La storia inizia pochi giorni dopo l’11 settembre 2001.
15 settembre 2001. Il Congresso degli Stati Uniti d’America approva la Risoluzione Congiunta di «Autorizzazione all’uso della forza militare» (2). Nella risoluzione si legge che «il presidente è autorizzato all’uso di tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli stesso (3) decida» siano coinvolte a vario titolo negli attacchi dell’11 settembre. La prima pietra è posta. Il Congresso ha dato sostanzialmente carta bianca all’esecutivo nel mettere in atto tutte le misure ritenute idonee a proteggere gli Stati Uniti dalla minaccia terroristica. Questo enorme conferimento di poteri alla Casa Bianca, un unicum del sistema costituzionale americano basato sul principio del bilanciamento dei poteri, costituisce la base giuridica su cui è stato possibile edificare l’intero sistema di legislazione antiterroristica. Da questo momento inizia una vera e propria «caccia» a sospetti terroristi. E a stabilire chi sono è esclusivamente il potere esecutivo.
7 ottobre 2001. Gli Stati Uniti attaccano Kabul. L’operazione Enduring Freedom è ufficialmente iniziata.
26 ottobre 2001. Il Congresso approva il documento Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001 [Legge 2001 per unire e rafforzare l’America fornendo gli strumenti appropriati richiesti per intercettare e ostacolare il terrorismo], meglio noto come Patriot Act. In 342 pagine si modificano radicalmente il sistema investigativo, le norme sull’immigrazione, le regole di detenzione degli Stati Uniti al fine di «prevenire e punire atti di terrorismo negli Stati Uniti e nel mondo» e per rafforzare gli strumenti investigativi a disposizione del governo. All’indomani dalla sua approvazione sia negli Stati Uniti che in Europa si è acceso un intenso dibattito focalizzato su una questione centrale (4): si possono in nome della sicurezza nazionale sacrificare diritti e libertà acquisiti nel corso della storia e che rappresentano i valori fondanti degli Stati Uniti? Si può, soprattutto, delegare la responsabilità della decisione su chi sia sospettato di terrorismo all’arbitrarietà dell’esecutivo? È questo infatti uno dei punti più controversi del Patriot Act, logica conseguenza della risoluzione del 15 settembre. La sezione 411 per esempio introduce una serie di nuove limitazioni all’immigrazione. E a decidere chi può o non può entrare negli Stati Uniti sono il segretario di Stato e il procuratore generale. Il Patriot Act corre sul filo dell’incostituzionalità. Ad essere in pericolo sono le disposizione del cosiddetto Bill of Rights, cioè i diritti tutelati dai primi dieci emendamenti della Costituzione degli Stati Uniti: il primo, che garantisce la libertà di parola e di stampa, il quarto che tutela contro perquisizioni e sequestri ingiustificati e soprattutto il quinto che stabilisce che nessuno può essere accusato di un crimine grave se non da una «grand jury» e che tutti hanno diritto al «giusto processo». Tutti principî incrinati dal Patriot Act.
13 novembre 2001. In virtù di tutti i poteri conferitigli dalla Risoluzione del 15 settembre e dal Patriot Act il presidente degli Stati Uniti d’America emana un Military order sulla «detenzione, trattamento, e procedimento nei confronti di alcuni non-cittadini nella guerra al terrorismo». Quest’ordinanza costituisce un vero e proprio «Codice di procedura penale» straordinario realizzato ad hoc dagli Usa per il trattamento dei sospetti terroristi. L’ordinanza stabilisce la creazione di Commissioni militari speciali che si occuperanno di svolgere gli – eventuali – processi nei confronti degli imputati (5). Non corti civili, né tribunali militari ordinari ma tribunali speciali istituiti ad hoc, procedura inammissibile secondo il diritto internazionale. Ovviamente a stabilire chi e se verrà processato è sempre il presidente. Nell’ordinanza Bush candidamente dispone che alle Commissioni militari istituite con questa ordinanza non si applicano «i principî di legge e le regole di valutazione della prova generalmente vigenti» nei tribunali americani. Bush inoltre stabilisce che è soggetto alla ordinanza (e quindi sottratto alla giurisdizione ordinaria, sia militare che civile) «ogni individuo non cittadino degli Stati Uniti nei confronti del quale io stesso determino […] che vi siano ragioni per ritenere» che sia (o sia stato) a vario titolo coinvolto nell’attuazione o progettazione di azioni di terrorismo internazionale. In nessun altro luogo dell’ordinanza si precisa che cosa si configura come «ragioni per ritenere» che un individuo cada sotto l’ordinanza. L’arbitrio è pressoché totale. Le Commissioni militari, così come regolate dal successivo Military commission order I (22 marzo 2002) e dalle Military instructions (30 aprile), impediscono l’esercizio dei più elementari diritti di un imputato.
A proposito delle Commissioni militari Dworkin ha scritto: «Questo è il tipo di “processo” che noi associamo con la più illegittima delle dittature totalitarie» (6).
Novembre 2001. Le preoccupazioni delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani non si fanno attendere. Amnesty International denuncia che le nuove norme antiterrorismo minano gravemente alcune tutele fondamentali relative alle modalità di arresto e detenzione, alle leggi sull’immigrazione, alle regole dei processi. L’organizzazione ha di mira proprio alcune norme stabilite dal Patriot Act e dalla ordinanza militare del 13 novembre. Amnesty denuncia anche la segretezza delle informazioni sui detenuti, che non consente un controllo pubblico dell’operato del governo. E si inizia a parlare di tortura. Un capitolo del memorandum indirizzato ad Ashcroft si intitola «Tecniche di interrogatorio. Si solleva lo spettro della tortura». Nel memorandum sono riportate precise testimonianze di detenuti che hanno subito maltrattamenti.
28 dicembre 2001. Risale a questa data il primo di una lunga e fitta serie di documenti segreti scambiati tra il dipartimento di Giustizia, quello di Difesa, quello di Stato e la Casa Bianca per definire lo status giuridico dei prigionieri della guerra al terrorismo (queste le date di riferimento: 9, 19, 22, 25-26 gennaio, 1, 7 febbraio). La conclusione (vedi il memorandum del presidente, 7 febbraio 2002) sarà che ai prigionieri della guerra al terrorismo non si applica lo status di prigioniero di guerra previsto dalla Terza Convenzione di Ginevra, quella che si occupa proprio del trattamento dei prigionieri di guerra. Il primo atto di questa progressiva sottrazione di diritti è stato stabilire che i detenuti a Guantanamo non hanno diritto a ricorrere nelle corti federali statunitensi per chiedere l’«habeas corpus», una delle principali garanzie costituzionali americane che tutela dall’ingiusto arresto e detenzione. Due sono i criteri utilizzati: i prigionieri non sono cittadini americani e sono detenuti fuori dal territorio degli Stati Uniti. Il memorandum del dipartimento di Giustizia indirizzato a quello di Difesa, dimostra come il governo degli Stati Uniti fosse consapevole del rischio di incostituzionalità del trattamento dei detenuti di Guantanamo e testimonia i tentativi dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia di trovare dei fondamenti giuridici che lo possano sostenere. Il più importante è una vecchia sentenza della Corte Suprema (Johnson v. Eisentrager del 1950) che aveva negato il diritto all’habeas corpus a prigionieri tedeschi detenuti dagli americani in Germania. La strategia argomentativa del dipartimento di Difesa ha funzionato per qualche tempo. I primi ricorsi di alcuni detenuti a Guantanamo alle corti americane sono stati respinti per «mancanza di giurisdizione», proprio in riferimento alla sentenza Eisentrager. Ma il 28 giugno 2004 il castello crolla. La Corte Suprema accoglie il ricorso di alcuni detenuti stabilendo la competenza delle corti federali a trattare le richieste di habeas corpus.
9 gennaio 2002. Con un memorandum dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia si apre la discussione nel governo sullo status giuridico dei prigionieri. L’operazione compiuta dall’amministrazione Bush si sviluppa in due mosse. La prima consiste nell’allargare l’ambito della guerra al terrorismo in maniera arbitraria anche ad operazioni che non si compiono in un preciso contesto di conflitto armato (per cui nella base di Guantanamo sono detenuti prigionieri catturati non solo nel corso del conflitto in Afghanistan ma anche in operazioni di polizia e di intelligence in altre parti del mondo) (7), facendo in tal modo rientrare tutte queste operazioni sotto la giurisdizione della nuova normativa antiterrorismo. La seconda mossa consiste nel considerare la guerra al terrorismo una guerra «sui generis» che non risponde più ai criteri del diritto bellico. Si viene così a creare – per mezzo di arbitrarie decisioni dell’amministrazione Bush – un nuovo tipo di prigioniero: il «combattente nemico». Non prigioniero comune, ma neanche prigioniero di guerra. Solo così è anche possibile che i detenuti di Guantanamo vengano processati di fronte a Commissioni militari istituite ad hoc.
Quella dello status giuridico dei presunti terroristi è in effetti una questione di diritto internazionale molto controversa. Ma alcune considerazioni possono essere fatte. Innanzitutto nell’ordinanza militare del presidente del 13 novembre si afferma che i sospetti terroristi debbano essere «giudicati per violazione delle leggi di guerra». Quindi da un lato si riconosce loro il dovere di rispettare le leggi di guerra, ma dall’altro si disconoscono i diritti correlati. In secondo luogo, la stessa Convenzione di Ginevra afferma che nei casi dubbi sia una corte imparziale (e non l’esecutivo) a stabilire se un detenuto è un prigioniero di guerra o meno ed in ogni caso dispone che questi prigionieri «fruiranno della protezione della presente Convenzione, nell’attesa che il loro statuto sia determinato da un tribunale competente» (art. 4). Infine una volta sottratti i detenuti allo status di prigionieri di guerra non si può togliere loro anche, per così dire, lo «status» di uomini e dunque andrebbero in ogni caso trattati secondo le leggi internazionali sui diritti umani, civili e politici (in particolare il Patto Internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e la Convenzione internazionale contro la tortura e altri trattamenti crudeli inumani e degradanti del 1984. Sull’applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani vedi memorandum del 22 gennaio 2002).
Il non riconoscere lo status di prigioniero di guerra apre la strada alle torture. L’articolo 17 della Terza Convenzione impone ai prigionieri di guerra soltanto l’obbligo di fornire elementi utili alla loro identificazione. Essi possono invece legittimamente rifiutarsi di fornire informazioni di altro tipo, specialmente di carattere militare.
11 gennaio 2002. Atterra nella base di Guantanamo il primo aereo con 20 prigionieri (8). Come riferiscono alcuni testimoni ad Amnesty International (9) e come dimostrano alcune testimonianze qui pubblicate (vedi la II parte della sezione testimonianze) la maggior parte dei prigionieri arrivava a Guantanamo dopo essere stata nei campi di Bagram e Kandahar in Afghanistan. È già in queste basi e durante il trasferimento a Guantanamo che il rispetto dei diritti umani nei confronti dei prigionieri viene messo a dura prova. Da adesso possiamo iniziare a parlare di tortura.
15 gennaio 2002. Amnesty International chiede agli Stati Uniti di porre fine immediatamente al «limbo giuridico» dei detenuti di Guantanamo e si dice preoccupata per le notizie di maltrattamenti di detenuti. Amnesty parla di detenuti «incatenati, incappucciati e sedati durante il trasferimento [dall’Afghanistan a Guantanamo], con le barbe forzatamente tagliate e rinchiusi in piccole celle a Guantanamo che non proteggono dagli agenti atmosferici».
16 gennaio 2002. L’alto commissariato per i Diritti umani dell’Onu afferma che «i detenuti a Guantanamo sono titolari della protezione delle leggi internazionali sui diritti umani e delle leggi umanitarie, in particolare le importanti disposizioni della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e le Convenzioni di Ginevra del 1949. Lo status giuridico dei detenuti, e la loro titolarità dello status di prigioniero di guerra, se dubbi, devono essere determinati da un tribunale competente» (10).
19 gennaio 2002. Sulla scorta dell’opinione dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia (9 gennaio 2002), il segretario della Difesa Donald Rumsfeld invia una breve nota al presidente di Stato maggiore, generale Richard B. Myers, con ordine di trasmetterla ai comandi operativi. Nella nota, desecretata come gran parte dei documenti qui citati il 22 giugno 2004, si legge che i prigionieri catturati nel corso della guerra al terrorismo «non sono titolari dello status di prigioniero di guerra ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1949». Nella stessa nota tuttavia Rumsfeld aggiunge che i detenuti «devono essere trattati con umanità e, nei limiti imposti dalle necessità militari, in modo conforme alla Convenzione di Ginevra del 1949». Questo messaggio sarà trasmesso ai comandi operativi il 21 gennaio.
22 gennaio 2002. Il capo dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia Jay S. Bybee scrive al consigliere legale della Casa Bianca Alberto R. Gonzales e all’avvocato generale del Pentagono William J. Haynes II un memorandum di 37 pagine sullo status giuridico dei detenuti. Si afferma che «il presidente Bush non è vincolato dalle leggi internazionali nei confronti dell’Afghanistan» perché l’Afghanistan è un «failed State», uno «Stato mancato» e in quanto tale non farebbe parte della comunità internazionale degli Stati reciprocamente vincolati dalla legislazione internazionale. «Lo status di “failed State” dell’Afghanistan», continua il memorandum, «è da solo motivo sufficiente perché il presidente sospenda la Terza Convenzione di Ginevra». In relazione al fatto che, anche in assenza degli obblighi derivanti dalla Terza Convenzione, la legge consuetudinaria internazionale richieda comunque che vengano applicati determinati standard di trattamento, il memorandum afferma che «la legge internazionale consuetudinaria […] non vincola il presidente, né limita le azioni dell’esercito degli Stati Uniti, perché essa non costituisce né una legge federale fatta in adempimento della Costituzione né un trattato riconosciuto sotto la “Supremacy Clause”». Gli Stati Uniti in sostanza disconoscono forza vincolante a quella parte di diritto internazionale – quello consuetudinario appunto – che di norma si applica all’intera comunità internazionale a prescindere dalla ratifica di singoli trattati.
25-26 gennaio 2002. Il segretario di Stato Colin Powell non condivide pienamente la linea del dipartimento di Giustizia e di Difesa. Secondo Powell non riconoscere l’Afghanistan come un vero e proprio Stato porrebbe gli Stati Uniti stessi fuori dalle tutele del diritto internazionale. La proposta di Powell è quella di considerare il conflitto in Afghanistan un vero e proprio conflitto internazionale sottoposto alle leggi di guerra. Questo non significa, aggiunge Powell, che i prigionieri catturati nel corso della guerra siano da considerarsi automaticamente prigionieri di guerra. La Terza Convenzione di Ginevra descrive in maniera precisa chi è da considerarsi prigioniero di guerra e in effetti i combattenti di al-Qaida – diverso il caso dei talebani – difficilmente soddisfano i criteri della Convenzione (come il portare segni distintivi visibili a distanza, il portare le armi apertamente, il non confondersi con i civili eccetera).
1 febbraio 2002. Il ministro della Giustizia Ashcroft scrive al presidente Bush ribadendo la sua posizione di totale contrarietà all’applicazione dei trattati internazionali al conflitto in Afghanistan.
2 febbraio 2002. Continua il tiro alla fune tra Powell e Ashcroft sull’applicazione delle Convenzioni di Ginevra. William Taft, consulente legale di Powell, sottolinea i vantaggi dell’applicazione della Convenzione. Attenzione però. La colomba Powell non è pienamente una colomba. L’applicazione della Convenzione al conflitto in Afghanistan non cambia il tipo di trattamento riservato ai prigionieri. È solo un problema di copertura legale. Scrive Taft: «Da un punto di vista politico, la decisione di applicare la Convenzione fornirebbe le migliori basi legali per trattare i detenuti di al-Qaida e i talebani come noi li vogliamo trattare. Essa dimostrerebbe che gli Stati Uniti basano la propria condotta non su preferenze politiche ma solo su obblighi legali internazionali». Come loro volevano trattarli lo abbiamo scoperto tutti qualche mese fa.
7 febbraio 2002. Arriva la decisione finale di Bush. Ai talebani e ai detenuti di al-Qaida non si applica la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra. Bush accoglie il lavoro dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia. Nel memorandum Bush afferma che «la guerra al terrorismo introduce un nuovo paradigma (…) voluto non da noi ma dai terroristi» che «richiede nuove riflessioni sulla legge di guerra, ma riflessioni che devono essere comunque conformi ai principî della Convenzione di Ginevra». Bush scrive ancora: «Ovviamente i valori della nostra Nazione, valori che condividiamo con molte altre nazioni nel mondo, ci impongono di trattare in modo umano i detenuti, compresi coloro i quali non hanno legalmente diritto ad un simile trattamento. […] Le forze armate degli Stati Uniti continueranno a trattare umanamente i prigionieri e, nei limiti imposti dalla necessità militare, in modo conforme ai principî della Convenzione di Ginevra».
Si chiude con questa decisione la fitta corrispondenza tra il dipartimento di Giustizia, quello di Difesa e la Casa Bianca per trovare le basi giuridiche per sottrarre prigionieri della guerra al terrorismo alle tutele della legislazione internazionale. Stabilito che i detenuti non sono prigionieri di guerra, si aprirà tra breve (26 febbraio) una altrettanto fitta corrispondenza sui metodi di interrogatorio. La strada verso la tortura è aperta.
25 febbraio 2002. Il Center for Constitutional Rights, la Human Rights Clinic della Columbia Law School, e il Center for Justice and International Law hanno chiesto alla Commissione interamericana per diritti umani di intervenire immediatamente presso il governo degli Stati Uniti per chiedere delle «misure preventive» per la protezione dei diritti umani dei detenuti a Guantanamo.
26 febbraio 2002. L’amministrazione Bush inizia a preoccuparsi dei metodi di interrogatorio da usare con i detenuti che da poco più di un mese arrivano regolarmente a Guantanamo (queste le date di riferimento: 1 agosto, 11 e 25 ottobre, 2 dicembre 2002, 15 gennaio, 4 e 16 aprile 2003). I protagonisti del dibattito sono sempre loro, i consulenti legali dei dipartimenti di Difesa e di Giustizia. Il primo passo è cercare di togliere a questi detenuti le più basilari garanzie giuridiche americane. Si inizia con i cosiddetti Miranda Rights, il diritto al silenzio e ad un avvocato, che vanno comunicati al momento dell’arresto. Secondo la sentenza della Corte Suprema Miranda v. Arizona del 1966, non possono essere utilizzate nel corso del processo informazioni ottenute in interrogatori in assenza degli avvocati difensori. Il memorandum, scritto dal dipartimento di Giustizia e indirizzato a William J. Haynes II, avvocato generale del dipartimento di Difesa, stabilisce che «affermazioni incriminanti possono essere ammesse nei procedimenti di fronte a Commissioni militari, anche se gli inquirenti non hanno rispettato le disposizioni dei Miranda». E ancora: «Il quinto emendamento [della Costituzione] non conferisce diritti a stranieri fuori dal territorio sovrano degli Stati Uniti». Guantanamo si è rivelata un’ottima scelta (almeno fino alla sentenza della Corte Suprema del 28 giugno 2004,). Come è ammesso anche nello stesso memorandum, lo scopo dei Miranda Rights è «prevenire pratiche che possano condurre l’imputato a fare dichiarazioni involontarie». Nonostante l’eufemismo, si intuisce bene quali possono essere queste «pratiche». L’impossibilità di utilizzare nei processi dichiarazioni rilasciate in interrogatori «non convenzionali» è un forte deterrente alla tortura. Il governo americano ha eliminato questo deterrente.
12 marzo 2002. In seguito alla petizione del Center for Costitutional Rights del 25 febbraio 2002 la Commissione interamericana per i diritti umani ha sollecitato il governo statunitense ad assumere misure urgenti necessarie per la determinazione dello status giuridico dei detenuti di Guantanamo da parte di un tribunale competente. Il governo ha risposto rivendicando per sé ogni discrezionalità in merito all’accertamento dei presupposti per la concessione ai detenuti dello status di prigionieri di guerra. La richiesta della Commissione è stata reiterata il 23 luglio dello stesso anno senza ottenere risposta.
14 marzo 2002. Rapporto di Amnesty International dedicato alle condizioni di cattura e di detenzione dei prigionieri arrestati dopo l’11 settembre e incarcerati in centri di detenzione in America. Oltre a preoccupazioni circa la segretezza dei nomi, dei luoghi, la mancanza di accesso agli avvocati e ai familiari, la detenzione prolungata senza accusa, Amnesty fa esplicito riferimento a maltrattamenti. Nel rapporto si legge che l’organizzazione «ha ricevuto notizie che i detenuti del “dopo 11 settembre” vengono ordinariamente incatenati con catene alla pancia e alle gambe, […] alcuni sono stati tenuti in isolamento prolungato. […] Ci sono anche accuse di abusi fisici e verbali su alcuni detenuti da parte di guardie». Il rapporto si riferisce soprattutto a persone catturate in territorio americano in seguito alle nuove norme antiterrorismo sull’immigrazione e detenute nel Metropolitan Correctional Center di Chicago, nel Metropolitan Detention Centre di Brooklyn e nel Denton County Jail in Texas.
14-15 aprile 2002. Amnesty International invia alla Casa Bianca un Memorandum sui diritti delle persone in custodia americana in Afghanistan e Guantanamo. In 66 pagine l’organizzazione elenca minuziosamente tutte le violazioni dei diritti umani imputabili alle forze americane, compresi presunti maltrattamenti e addirittura uccisioni di detenuti. La Casa Bianca tace (11).
1 agosto 2002. A questa data risalgono due importanti memoranda dell’ufficio legale del dipartimento di Giustizia, uno a firma Jay S. Bybee, capo dell’ufficio legale, l’altro del suo vice John C. Yoo. Entrambi sono indirizzati a Gonzales, consigliere legale del presidente, e riguardano le tecniche di interrogatorio da usare sui detenuti.
Quello di Yoo (6 pagine) tenta di capire se la Convenzione internazionale contro la tortura pone agli Stati Uniti obblighi maggiori di quelli derivanti dalla sezione 2340-2341 del Codice degli Stati Uniti (US Code). Yoo si impegna in un analitico confronto tra la definizione della tortura data nella Convenzione e quella presente nel Codice e sottolinea come per il Codice sia necessaria una «specifica intenzione» di provocare gravi sofferenze per poter parlare di tortura. Nel ratificare la Convenzione internazionale contro la tortura, Bush padre aveva avuto cura di limitare la definizione di tortura data dalla Convenzione al nocciolo coincidente con quella data dal Codice. In questa, che secondo Yoo costituisce una vera e propria «restrizione» alla Convenzione, gli Stati Uniti hanno anche precisato che le sofferenze mentali, per costituire tortura, devono raggiungere una «gravità comparabile a quella richiesta nel contesto della tortura fisica». Yoo ricorda infine che «non c’è nessuna corte internazionale che possa giudicare la condotta degli Stati Uniti sotto la Convenzione [contro la tortura]». Gli Stati Uniti, infatti, avevano firmato il Trattato di Roma del 1998 che istituisce il Tribunale penale internazionale. Ma un paio di mesi prima della sua entrata in vigore nel luglio 2002, gli Stati Uniti hanno informato il segretario generale dell’Onu che «non intendono diventare parte del trattato» (12). «In ogni caso», continua Yoo, «la tortura ricade sotto la giurisdizione del Tribunale in quanto crimine di guerra se è commessa «contro persone […] protette dalle disposizioni della Convenzione di Ginevra». Le tessere del puzzle iniziano a comporre un disegno coerente. La decisione di non considerare i detenuti prigionieri di guerra (7 febbraio 2002) significa togliere loro la protezione della Convenzione di Ginevra: anche nel caso di torture, il Tribunale penale internazionale non sarebbe competente. La rete di salvataggio ha di fatto funzionato. Dopo lo scoppio dello scandalo nell’aprile 2004 la gestione della vicenda è stata tutta un affare interno agli Stati Uniti, che hanno deciso chi processare e condannare (vedi l’ultima parte di questa cronologia).
Il secondo memorandum datato 1 agosto, quello di Bybee, è molto più lungo (50 pagine) ed entra nello specifico delle tecniche di interrogatorio, tracciando una sottile linea di separazione tra le «legittime» tecniche di interrogatorio e la tortura. Bybee esordisce chiarendo che «certi atti possono essere crudeli, inumani o degradanti ma non produrre ancora pene o sofferenze dell’intensità richiesta per cadere sotto» la definizione di tortura data dal «Codice degli Stati Uniti». Bybee spiega che «affinché un atto costituisca tortura come definita nella sezione 2340 [del Codice degli Stati Uniti], esso deve infliggere pene o sofferenze che siano difficili da sopportare. Pene fisiche valenti come tortura devono essere equivalenti in intensità alle pene che accompagnano serie lesioni fisiche, come il malfunzionamento di un organo, la menomazioni di funzioni corporali, o anche la morte. Per considerare tortura secondo la sezione 2340 una pena o sofferenza puramente mentale, essa deve produrre un significativo danno psicologico di una significativa durata, per esempio che duri per mesi o anche per anni. […] Noi concludiamo che lo statuto [il Codice], preso nel suo complesso, proibisce solo atti estremi». È impressionante la perizia che gli avvocati del dipartimento di Giustizia impiegano per stabilire quanto prolungata debba essere una sofferenza mentale, o quanto distruttiva della personalità una droga somministrata affinché si possa parlare di tortura. Una parte del lungo memorandum è dedicata ad una particolare classe di «tecniche» di interrogatorio: le deprivazioni sensoriali. Gli avvocati di Ashcroft ritengono che «se molte di queste tecniche possono essere considerate trattamento crudele, inumano o degradante, esse non producono pene o sofferenze della necessaria intensità per incontrare la definizione di tortura». Se poi tutte le argomentazioni addotte finora non dovessero funzionare, «nelle attuali circostanze, la necessità o l’autodifesa possono giustificare metodi di interrogatorio che possono violare» il «Codice degli Stati Uniti».
Nel memorandum, che costituisce una vera e propria apologia della tortura, non si manca di sottolineare un elemento attenuante per l’eventuale accusato di tortura: la buona fede. «Un imputato potrebbe negare […] una specifica intenzione di causare gravi pene o sofferenze mostrando che egli ha agito in buona fede. […] Poiché la buona fede nega l’elemento della specifica intenzione, costituisce una completa difesa da una simile accusa».
È sulla scorta di documenti come questo che il 4 maggio 2004 Rumsfeld ha potuto affermare che «ciò che ci viene imputato appartiene alla categoria degli abusi diversa da quella delle torture».
15 agosto 2002. L’organizzazione internazionale per la tutela dei diritti umani Human rights watch (Hrw) pubblica un rapporto sugli abusi sui detenuti arrestati nel corso dell’operazione «11 settembre». Come già Amnesty International, Hrw denuncia l’intero sistema di arresto e detenzione dei prigionieri e riporta testimonianze di maltrattamenti da parte di detenuti.
11 ottobre 2002. A Guantanamo hanno un problema. I detenuti non collaborano. Jerald Phifer, direttore della squadra interrogatori di Guantanamo, informa il generale Michael Dunlavey, comandante della Joint Task Force 170 (quella che gestisce la base di Guantanamo) che «le attuali linee guida per le procedure di interrogatorio a Guantanamo limitano la capacità degli inquirenti di contrastare una avanzata resistenza» e pertanto chiede l’approvazione di una serie di tecniche di interrogatorio che divide in 3 categorie.
La prima categoria, spiega Phifer, prevede che «il detenuto sia provvisto di una sedia e l’ambiente sia generalmente confortevole». La seconda categoria prevede: «L’uso di stress positions (come lo stare in piedi) per un massimo di quattro ore; […] l’uso di celle di isolamento fino a 30 giorni; […] deprivazione della luce e di stimoli uditivi; il detenuto può anche portare un cappuccio sulla testa durante il trasporto e l’interrogatorio». «Il cappuccio», si precisa, «non deve in nessun modo impedire il respiro e il detenuto mentre è incappucciato deve essere sotto diretta osservazione». Ancora: «L’uso di interrogatori lunghi 20 ore; la rimozione di ogni oggetto confortevole (compresi gli oggetti religiosi); […] la rimozione dei vestiti; lavaggi forzati (rasatura della barba eccetera); l’uso delle fobie individuali dei detenuti (come la paura dei cani) per indurre stress». Infine per i più ostinati arriva la terza categoria che prevede: «L’uso di simulazioni studiate per convincere il detenuto che la morte o conseguenze molto dolorose sono imminenti per lui o per la sua famiglia; l’esposizione all’aria o all’acqua fredde (sotto controllo medico); l’uso di asciugamani inzuppati di acqua per provocare la sensazione di soffocamento; l’uso di leggero contatto fisico non lesivo come afferrare, colpire il petto con le dita, spingere leggermente». Viene precisato che «queste tecniche sono richieste in una piccolissima percentuale di detenuti tra i meno collaborativi (meno del 3 per cento)». Il generale Dunlavey ritiene che le tecniche descritte nel memorandum di Phifer «intensificheranno i nostri sforzi per estrarre ulteriori informazioni» e, basandosi sul parere dello Staff Judge Advocate della base di Guantanamo, ritiene che «queste tecniche non violano le leggi statunitensi né quelle internazionali». Gli avvocati di Guantanamo avevano infatti stabilito che le tecniche proposte da Phifer «sono legali perché non violano l’ottavo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti né lo statuto federale della tortura [sezioni 2340-2341 del Codice degli Stati Uniti]» perché «non c’è alcuna evidenza che qualcuna di queste strategie causerà nei fatti prolungati e continuativi danni mentali». Inoltre: «Un’analisi della legislazione internazionale non è richiesta […] perché le Convenzioni di Ginevra non si applicano a questi detenuti». Di nuovo una conferma che la sottrazione dei detenuti allo status di prigioniero di guerra fa diventare tutto una questione interna. I panni sporchi gli Stati Uniti li lavano in famiglia.
25 ottobre 2002. In relazione al memorandum dell’11 ottobre 2002 il generale James T. Hill, comandante dell’esercito statunitense, scrive al presidente dello Stato maggiore, generale Myers, chiedendo che le tecniche della categoria 3 siano esaminate dai dipartimenti di Difesa e di Giustizia. Nel fare questa richiesta il generale Hill caldeggia l’approvazione delle tecniche di tutte e tre le categorie perché «ritiene fermamente che noi dobbiamo fornire la Joint Task Force 170 di tecniche di contro-resistenza per massimizzare il valore della nostra missione di raccolta di intelligence».
2 dicembre 2002. Arriva l’approvazione di Rumsfeld. Su suggerimento dell’avvocato generale del Pentagono William Haynes II, vengono approvate le tecniche delle categorie 1 e 2 e una delle tecniche della categoria 3 («l’uso di leggero contatto fisico non lesivo come afferrare, colpire il petto con le dita, spingere leggermente»). Nell’approvare il memorandum di Haynes, Rumsfeld aggiunge una nota scritta a mano e siglata: «Comunque, io sto in piedi 8-10 ore di seguito. Perché loro non possono stare in piedi più di 4 ore?». Questo provvedimento verrà annullato il 15 gennaio 2003 dallo stesso Rumsfeld, che imporrà una più attenta valutazione caso per caso delle tecniche da impiegare. Il 22 giugno 2004, data in cui la Casa Bianca e il Pentagono in una conferenza stampa hanno reso pubblici la maggior parte dei documenti qui discussi, è stato anche fornito un elenco delle tecniche autorizzate e impiegate realmente tra il 2 dicembre 2002 e il 15 gennaio 2003. Tra le tecniche di cui è stato ammesso l’uso ci sono la deprivazione della luce, l’uso di inquirenti donne per indurre stress, l’uso di interrogatori prolungati fino a 20 ore, lavaggi forzati eccetera.
13 dicembre 2002. Continua la protesta di Amnesty International sulla condizione dei detenuti a Guantanamo. L’organizzazione invia una lettera a Bush, Rumsfeld e Powell per sollecitare delle risposte alle numerose richieste di chiarimenti avanzate a partire dall’aprile 2002.
26 dicembre 2002. Arriva il primo duro colpo per l’amministrazione Bush dalla stampa. Il Washington Post, citando fonti tra gli ufficiali dell’esercito americano e agenti della Cia, afferma che i detenuti nella base di Bagram, in Afghanistan, «vengono tenuti in piedi o sulle ginocchia per ore, con cappucci neri o occhiali protettivi verniciati, […] in posizioni scomode e dolorose e privati del sonno con un bombardamento di luci 24 ore al giorno». Il Washington Post rivela anche che molti detenuti che «non collaborano» vengono «trasmessi» ad altri paesi noti per applicare metodi di interrogatori molto vicini alla tortura. Quegli stessi paesi, come l’Egitto, il Marocco, la Giordania e la Siria, che figurano sempre ai primi posti per la violazione dei diritti umani nei rapporti annuali del dipartimento di Stato americano. Paesi formalmente condannati ma segretamente sfruttati per fare il «lavoro sporco» e consentire agli agenti della Cia di dire «non sapevamo». Il Washington Post afferma ancora: «I prigionieri sono spesso “ammorbiditi” dalla polizia militare e da truppe delle forze speciali dell’esercito statunitense, che li colpiscono e li confinano in stanze piccolissime. I presunti terroristi sono di solito bendati, gettati contro le pareti, legati in posizioni dolorose, soggetti a forti rumori e privati del sonno». «L’amministrazione Bush», scrive ancora il Washington Post, «mantiene una distanza legale da ogni maltrattamento avvenuto Oltreoceano […] negando che la tortura sia il risultato perseguito dalla politica dei trasferimenti». Questo articolo del Washington Post scatena una ondata di reazioni, prima fra tutte quella dell’organizzazione Human rights watch che chiede spiegazioni all’amministrazione Bush. Due giorni dopo arriva la prima smentita ufficiale da parte dell’esercito americano.
15 gennaio 2003. Rumsfeld, probabilmente a seguito delle pressioni crescenti, annulla il provvedimento preso il 2 dicembre 2002 con cui si autorizzavano alcune tecniche di interrogatorio particolarmente aggressive. In una nota indirizzata al Comandante dell’US South Command, Rumsfeld dispone che l’uso di ciascuna tecnica va deciso caso per caso e sottoposto alla sua diretta approvazione. Viene anche creato un gruppo di lavoro incaricato di studiare tutte le «questioni legali, politiche e operative relative agli interrogatori dei detenuti nell’ambito della guerra al terrorismo». Il risultato di questo studio arriverà il 4 aprile 2003.
31 gennaio 2003. Iniziano a moltiplicarsi le notizie di abusi. Il Washington Post riferisce di un detenuto con doppia cittadinanza siriana e tedesca arrestato in Marocco nel novembre 2001 e poi segretamente trasferito in Siria. Il quotidiano americano riporta le dichiarazioni di un ex detenuto che afferma che Zammar – questo il nome del siriano-tedesco – è stato torturato nel centro di detenzione Far’Falastin di Damasco. Sempre secondo il Washington Post ufficiali americani avevano preso parte agli interrogatori di Zammar in Marocco e sapevano che il detenuto sarebbe stato trasferito in Siria.
7 febbraio 2003. Amnesty International scrive al governo degli Stati Uniti per chiedere un’indagine sui numerosi tentativi di suicidio avvenuti a Guantanamo. L’organizzazione chiede che sia valutato il ruolo giocato dalle condizioni di detenzione nei tentativi di suicidio. Dal governo non arriva alcuna risposta (vedi rapporto Amnesty International del 19 agosto 2003).
6 marzo 2003. Il presidente degli Stati Uniti George Bush ha garantito a Sergio Vieira de Mello, alto commissario dell’Onu per i Diritti umani, che gli Stati Uniti non fanno ricorso alla tortura negli interrogatori delle persone sospettate di legami con il terrorismo detenute dagli Usa.
9 marzo 2003. Ufficiali dell’intelligence americana dichiarano al New York Times che «le tecniche di interrogatorio ordinarie includono coprire la testa dei sospetti con cappucci neri per ore e obbligarli a stare in piedi o sulle ginocchia in posizioni scomode nell’estremo freddo o caldo». «In alcuni casi», scrive ancora il quotidiano newyorkese, «vengono usate delle donne come inquirenti per tentare e umiliare gli uomini abituati a trattare le donne da posizioni di autorità». Nello stesso articolo – ripreso poi da Amnesty International nel suo rapporto del 19 agosto 2003 – un ufficiale dell’intelligence descrive gli interrogatori di Omr al-Faruq, presunto membro di al-Qaida, avvenuti a Bagram come «non proprio tortura, ma qualcosa che vi si avvicina molto». Lo stesso ufficiale afferma che per più di tre mesi Omar al-Faruq «ha mangiato molto poco, è stato sottoposto a deprivazione del sonno e della luce, a prolungato isolamento e a temperature che variavano dai cento ai dieci gradi». Sempre le fonti del New York Times affermano che un altro prigioniero, Shaikh Mohammed, detenuto in una località segreta, non sarebbe stato soggetto a tortura fisica, ma coloro che lo interrogavano avrebbero utilizzato «quelle che essi considerano tecniche accettabili come la deprivazione del sonno e della luce, la sospensione temporanea di cibo, acqua, dell’accesso alla luce del sole e alle cure mediche».
11 marzo 2003. A quanto pare la tortura è soltanto una questione di definizione. In un incontro con la sezione danese di Amnesty International l’ambasciatore Usa per i crimini di guerra, Pierre-Richard Prosper, ha espresso dubbi sul fatto che la deprivazione del sonno costituisca vera e propria tortura (vedi rapporto Amnesty International del 19 agosto 2003)
20 marzo 2003. Gli Stati Uniti attaccano Baghdad. Inizia l’operazione Iraqi Freedom, che fa parte integrante della guerra globale al terrorismo. Dopo sedici giorni gli americani hanno il controllo del centro di Baghdad. Il regime di Saddam è finito. Ma la guerra è solo agli inizi.
Aprile 2003. A circa un mese dall’inizio della guerra in Iraq e poco dopo la presa di Baghdad da parte degli americani, il carcere di Abu Ghraib, nella periferia ovest della capitale irachena, ribattezzato Baghdad Central Confinement Facility viene adibito dalle forze americane a luogo di detenzione dei prigionieri. La condizione giuridica dei detenuti ad Abu Ghraib è molto diversa da quella dei prigionieri di Guantanamo e in Afghanistan. Innanzitutto sarebbe impossibile definire l’Iraq di Saddam Hussein un «failed State» e dunque le Convenzioni di Ginevra vanno totalmente applicate (come ammetterà il generale Myers alla Commissione per i Servizi militari il 7 maggio 2004) (13) e i combattenti fedeli a Saddam non possono non essere considerati prigionieri di guerra. In secondo luogo, come verrà alla luce col passare dei mesi ma soprattutto dopo il 29 aprile 2004, ad Abu Ghraib vengono incarcerati anche delinquenti comuni, ladri soprattutto, che con la caduta del regime e la città abbandonata si sono moltiplicati. A tutti però verrà riservato lo stesso trattamento (14).
1 aprile 2003. Il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) informa a voce il consigliere politico del comandante delle forze armate britanniche presso il comando centrale delle forze della Coalizione di Doha dei maltrattamenti inflitti dal personale dell’intelligence militare per interrogare i prigionieri nel campo di detenzione di Umm Qasr, nell’Iraq meridionale. Da questo momento e fino a febbraio 2004, quando scriverà un rapporto completo, il Comitato internazionale della Croce Rossa denuncia alle forze della Coalizione casi di maltrattamenti ai prigionieri nel campo di detenzione di Umm Qasr e presso l’aeroporto internazionale di Baghdad. Come è tradizione della Croce Rossa, le denunce vengono mantenute confidenziali. Nel rapporto del febbraio 2004, reso pubblico solo a maggio, il Cicr riepiloga tutte le occasioni, più o meno formali, in cui ha denunciato abusi e violazioni delle leggi internazionali.
4 aprile 2003. Arriva il rapporto finale del gruppo di lavoro incaricato a gennaio da Rumsfeld di studiare tutte le implicazioni storiche, politiche e operative degli interrogatori ai detenuti. Il rapporto, di 85 pagine, costituisce la summa di tutti i precedenti memoranda a riguardo e nella sostanza ne conferma i contenuti. La peculiarità di questo documento è l’appendice che riporta una minuta tabella con 35 tecniche di interrogatorio. Per ognuna delle tecniche elencate, un bollino verde, giallo o rosso indica la compatibilità o meno con la normativa federale e internazionale (così come interpretata nel rapporto), l’utilità della tecnica al fine di ottenere informazioni, le conseguenze della stessa sull’opinione dei partner internazionali, gli effetti sul trattamento dei soldati americani eventualmente catturati e su eventuali ricorsi dei detenuti, le possibili reazioni dell’opinione pubblica.
L’ultima colonna della tabella è dedicata alle «Recommendations». Tra i vari suggerimenti il «working group» raccomanda anche di preparare «un piano per anticipare e indirizzare potenziali indagini pubbliche». Le 35 tecniche di interrogatorio sono elencate in ordine di «gravità». Le ultime 9 sono considerate «eccezionali». Le tecniche «eccezionali» (isolamento, uso di interrogatori prolungati, lavaggi forzati, stare in piedi a lungo, deprivazione del sonno, esercizio fisico, colpi in faccia o sulla pancia, rimozione dei vestiti, accrescere l’ansia) sono soggette a particolari limitazioni: devono essere usate solo in «strutture di interrogatorio strategiche» (Guantanamo è una di queste); ci devono essere buone ragioni per credere che il detenuto possegga importanti informazioni; il detenuto deve essere valutato «idoneo» da un medico; gli inquirenti devo essere specificamente addestrati all’uso di queste tecniche; ed infine si deve fare un dettagliato «piano» dell’interrogatorio che includa «ragionevoli protezioni, limiti di durata, intervalli tra le applicazioni, criteri per l’interruzione e la presenza o la disponibilità di personale medico qualificato». A proposito dei poteri presidenziali, si precisa che il presidente in quanto comandante in capo delle forze armate «non è vincolato né alla legge nazionale né a quella internazionale sulla proibizione della tortura».
16 aprile 2003. Rumsfeld approva 24 delle 35 tecniche analizzate nel rapporto del «working group» (4 aprile). Tra le tecniche definite nel rapporto «eccezionali» il segretario della Difesa ne approva solo una, l’isolamento. Rumsfeld precisa che le tecniche approvate vanno adoperate solo a Guantanamo.
maggio 2003. La Croce Rossa invia alle forze della Coalizione un memorandum basato su oltre 200 dichiarazioni di maltrattamenti di prigionieri. «Le dichiarazioni», scrive l’organizzazione, «erano compatibili con i segni lasciati sui corpi delle persone visitate dai delegati medici». Il memorandum fu consegnato al comando centrale degli Stati Uniti a Doha, in Qatar. «In seguito», scrive ancora la Croce Rossa, «un miglioramento consistette nella eliminazione delle fascette ai polsi con la scritta “terrorista” data ai detenuti stranieri» (vedi rapporto Cicr febbraio 2004).
25 giugno 2003. Nel rispondere ad una richiesta di chiarimenti sulle notizie di abusi e maltrattamenti sui detenuti avanzata dal senatore Leahy, il dipartimento di Difesa afferma che è «politica degli Stati Uniti trattare i prigionieri e condurre gli interrogatori in modo conforme alle disposizioni della Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti» (15).
26 giugno 2003. È la Giornata internazionale contro la tortura proclamata dalle Nazioni Unite. In un solenne discorso nel corso di una cerimonia Bush afferma che «gli Stati uniti sono impegnati nell’abolizione mondiale della tortura e guidano questa battaglia con il buon esempio» (16). Nella stessa giornata dell’anno successivo, Bush non farà alcuna dichiarazione sulla tortura.
Sempre il 26 giugno Amnesty International comunica formalmente a Paul Bremer, capo dell’Autorità provvisoria in Iraq, dei maltrattamenti a Camp Cropper (aeroporto internazionale di Baghdad) e Abu Ghraib. La lettera viene resa pubblica da Amnesty qualche giorno dopo (17).
3 luglio 2003. Bush annuncia di aver scelto sei prigionieri detenuti a Guantanamo (su oltre 600) per essere processati davanti alle Commissioni militari. Tra i sei ci sono anche due cittadini britannici e un australiano. Le reazioni dei due paesi e dell’intera comunità internazionale fanno sospendere le procedure. Un anno dopo, il 29 giugno 2004, Rumsfeld annuncia che ad essere processati saranno lo yemenita Alì Hamza Ahmed Sulayman al-Bahlul, il sudanese Ibrahim Ahmed Mahmoud al-Qosi, l’australiano David Hicks e ancora uno yemenita, Salim Ahmed Hamdan. I processi di questi quattro detenuti cominceranno il 24 agosto 2004.
Inizi di luglio 2003. Il Comitato internazionale della Croce Rossa invia alle forze della Coalizione un foglio di lavoro che riporta in dettaglio circa una cinquantina di accuse di maltrattamenti subiti nella sezione dell’intelligence militare di Camp Cropper, presso l’aeroporto internazionale di Baghdad. L’elenco comprende «una varietà di meschini e deliberati atti di violenza finalizzati ad assicurare la collaborazione dei prigionieri a coloro che li interrogavano: minacce; […] incappucciamento; manette molto strette; obbligo di rimanere in posizioni snervanti (in ginocchio, accucciati, in piedi con le braccia sollevate sopra la testa) per tre o quattro ore; essere presi di mira dalle armi da fuoco, essere colpiti dal calcio dei fucili, essere schiaffeggiati, presi a pugni o essere esposti per lungo tempo al sole o in celle buie in isolamento. I delegati del Cicr», si legge ancora nel rapporto, «hanno potuto constatare i segni lasciati sui corpi di parecchi prigionieri, segni compatibili con quanto loro denunciavano» (rapporto Cicr febbraio 2004).
23 luglio 2003. Amnesty International invia all’amministrazione americana un Memorandum di preoccupazioni relative al diritto e all’ordine in Iraq, che include precise denunce di casi di torture. L’organizzazione dichiara di non aver ricevuto alcuna risposta (18).
19 agosto 2003. Ennesimo rapporto di Amnesty International. In sessanta pagine l’organizzazione riassume un anno di denunce sul trattamento dei detenuti prima in Afghanistan e Guantanamo, poi in Iraq. Afferma che «gli Stati Uniti hanno mostrato una tendenza a condonare un certo trattamento dei prigionieri che diverge da ciò che è ampiamente considerato accettabile nella comunità internazionale degli Stati». L’organizzazione, che come al solito riporta numerose testimonianze di maltrattamenti (vedi l’articolo seguente, parte II delle testimonianze), denuncia che «i detenuti segregati a Guantanamo, Bagram e in altri luoghi sono alla mercé dell’esecutivo». «Una pratica che facilita la tortura», si legge ancora nel rapporto, «è la detenzione in “incommunicado” [tenuta segreta]. […] Trasparenza, accesso e responsabilità sono le misure più efficaci contro la tortura e i maltrattamenti». L’unica misura contro la tortura messa in atto dal Pentagono dopo lo scoppio dello scandalo sarà vietare fotocamere e videofonini (23 maggio 2004).
31 agosto-9 settembre 2003. Il generale Geoffrey Miller, responsabile degli interrogatori a Guantanamo, viene incaricato di rivedere le tecniche di interrogatorio utilizzate ad Abu Ghraib per capire quanto sono in grado di «sfruttare i detenuti» per ottenere informazioni. «Il team del generale Miller», scrive il generale Taguba nel suo rapporto del 29 febbraio 2004, «ha usato come linee guida procedure e specialisti in interrogatori usati dalla Jtf-Gtmo [Joint Task Force – Guantanamo]». Come si legge ancora nel rapporto Taguba, Miller raccomanda che la polizia militare, che ha in custodia i detenuti, «crei le condizioni per il successo degli interrogatori e la valorizzazione dei detenuti». Come emergerà solo dopo molti mesi, il «picco» di crudeltà ad Abu Ghraib si è registrato tra ottobre e novembre del 2003, esattamente subito dopo la visita di Miller, che nel frattempo è diventato responsabile delle operazioni sui detenuti in Iraq.
7 ottobre 2003. La American Civil Liberties Union, il Center for Constitutional Rights e altre organizzazioni chiedono che vengano desecretati i documenti relativi alle tecniche di interrogatorio dei detenuti. La richiesta cita numerose notizie di stampa che suggeriscono che il maltrattamento dei detenuti «potrebbe essere accettato e anche incoraggiato dagli ufficiali superiori». La richiesta verrà respinta.
14 ottobre 2003. In un’intervista ad una televisione australiana Bush dichiara: «Noi in America non torturiamo le persone. E chi fa queste affermazioni semplicemente non sa nulla del nostro paese»
6 novembre 2003. Il generale Ryder, incaricato dal comandante delle forze della Coalizione in Iraq, Ricardo Sanchez, di valutare e dare suggerimenti sulle condizioni di detenzione ad Abu Ghraib, parla di scarso addestramento dei soldati e allude a pratiche di «ammorbidimento» dei prigionieri per gli interrogatori. Il rapporto di Ryder, di cui parleranno per la prima volta il New York Times e il Washington Post il 30 maggio 2004, è preso di mira da Taguba (29 febbraio 2004) che lo accusa di aver sottovalutato la gravità della situazione proprio nel periodo (ottobre-novembre) in cui sono avvenuti i più gravi abusi.
16 gennaio 2004. Il soldato Joseph Darby della polizia militare in servizio ad Abu Ghraib denuncia gli abusi ai suoi superiori. In seguito a queste denunce Sanchez dispone l’apertura di un’«indagine informale» che viene affidata al generale Antonio Taguba. Il giorno dopo il generale Karpinski, responsabile della gestione di Abu Ghraib, sarà formalmente ammonita. Taguba comunicherà il risultato del suo lavoro il 29 febbraio 2004. Quando tutta la vicenda diventerà pubblica Joseph Darby non potrà rientrare nel suo paese natale, a Corriganville in Maryland, dove è considerato un «traditore» dell’esercito, mentre a Hyndman in Pennsylvania parenti e amici di Jeremy Sivits, il «fotografo» delle torture condannato ad un anno di reclusione, organizzeranno fiaccolate e veglie di preghiera per esprimere solidarietà a quello che considerano il capro espiatorio dell’intera vicenda. Anche questa è America.
18 gennaio 2004. Le notizie di maltrattamenti sui detenuti si fanno sempre più insistenti. Il londinese Sunday Times riporta le dichiarazioni di un detenuto che afferma di essere stato «picchiato spesso, di aver ricevuto scariche elettriche, e che gli hanno strappato un’unghia del piede».
Febbraio 2004. Il Comitato internazionale della Croce Rossa invia un dettagliato rapporto al capo dell’Autorità provvisoria in Iraq Paul Bremer e al comandante della coalizione, generale Ricardo Sanchez. Il rapporto, tenuto segreto fino allo scoppio dello scandalo, riferisce precisi casi di maltrattamenti (ne pubblichiamo un estratto nell’articolo seguente, parte I delle testimonianze).
29 febbraio 2004. Il generale Antonio Taguba consegna il suo rapporto. Le sue valutazioni sono inequivocabili. Ad Abu Ghraib «tra ottobre e dicembre 2003 numerosi casi di abusi sadici, evidenti e indecenti sono stati inflitti a diversi detenuti». Taguba parla esplicitamente di «abuso sistematico e illegale» ed elenca gli «abusi intenzionali» inflitti ai detenuti: «Colpire con pugni, schiaffi e calci i detenuti saltando sui loro piedi nudi; filmare e fotografare detenuti maschi e femmine in stato di nudità; costringere con la forza detenuti in varie posizioni sessualmente esplicite per fotografarli; costringere detenuti a togliersi i vestiti e tenerli nudi per diversi giorni; costringere detenuti maschi nudi a indossare biancheria femminile; costringere gruppi di detenuti maschi a masturbarsi mentre venivano fotografati e filmati; disporre detenuti maschi nudi uno sopra l’altro e saltare su di loro; mettere un detenuto nudo su una scatola di cibo militare, con un sacco sulla testa e attaccare fili elettrici alle dita delle mani, dei piedi e al pene per simulare una tortura elettrica; scrivere “sono uno stupratore” sulla gamba di un detenuto accusato di aver violentato una detenuta di 15 anni e quindi fotografarlo nudo; mettere una catena per cani o un guinzaglio intorno al collo di un detenuto nudo e permettere a una donna soldato di posare per una fotografia; un poliziotto militare che ha avuto un rapporto sessuale con una detenuta; usare cani del servizio militare (senza museruola) per intimidire e spaventare detenuti e almeno in un caso facendo mordere e ferire gravemente un detenuto; scattare fotografie a detenuti iracheni deceduti».
Altri abusi, denunciati da alcuni detenuti, sono giudicati da Taguba «credibili»: «Rottura di lampade chimiche, il cui contenuto fosforico veniva versato sui prigionieri; minacce con pistole calibro 9 mm; getti d’acqua fredda su detenuti nudi; percosse con manici di scopa o con una sedia; minacce di stupro ai danni di prigionieri maschi; sutura da parte di membri della polizia militare di ferite provocate facendo urtare con violenza il detenuto contro le pareti della cella; prigionieri sodomizzati con lampade chimiche o con manici di scopa».
Per la stesura del suo rapporto il generale Taguba si è basato su deposizioni fatte da alcuni detenuti tra il 16 e il 19 gennaio 2004. Le pubblichiamo tutte integralmente per la prima volta in Italia, nell’articolo seguente, parte I delle testimonianze. Oltre che quelle dei detenuti il generale Taguba ha anche ascoltato le testimonianze di personale della polizia e dell’intelligence militare e dei sospetti aguzzini. Tra i soldati ascoltati da Taguba ci sono nomi che sono poi diventati famosi. Jeremy Sivits, il «fotografo», unico finora condannato, Sabrina Harman, la ragazza che posa sorridente accanto al cadavere di un detenuto, Javal S. Davis, Lynndie England, la ragazza che tiene al guinzaglio un prigioniero e indica sorridente i genitali di un altro.
Il rapporto Taguba smentisce con forza la tesi delle mele marce. «Ho potuto accertare», afferma Taguba, «che […] gli agenti dell’intelligence militare che dovevano condurre gli interrogatori e altri di altre agenzie governative [Oga, un’espressione solitamente utilizzata per indicare la Cia] hanno insistentemente chiesto che gli agenti della polizia militare creassero le condizioni fisiche e psicologiche migliori per favorire gli interrogatori di testimoni. […] Ho potuto accertare che il personale della 372esima compagnia di polizia militare, dell’800esima brigata di polizia militare [cui era affidata la custodia dei prigionieri] ha ricevuto l’ordine di cambiare le procedure del carcere per “creare le condizioni” per gli interrogatori da parte agenti dell’intelligence militare».
18 marzo 2004. Ancora un rapporto di Amnesty International sulla disastrosa situazione dei diritti umani in Iraq a un anno dalla fine ufficiale della guerra, con un capitolo esplicitamente dedicato a casi di tortura.
29 aprile 2004. Arriva la doccia fredda. La televisione americana Cbs nel corso di un popolare programma manda in onda le immagini dello scandalo. Non si può più fare finta di niente. Alla strategia della negazione utilizzata con forza fino a questo momento dal governo si sostituisce quella delle mele marce e dei «poveri ragazzi» che hanno commesso degli errori. Ma anche questa ha vita breve.
30 aprile 2004. Bush dichiara di essere «disgustato» dalle fotografie e che ciò che è accaduto «non rappresenta ciò che gli Stati Uniti incarnano, i nostri valori, né il grande lavoro della grande maggioranza, il 99 per cento di uomini e donne che sono impegnati a sostenere i valori che l’America tiene cari».
Il New Yorker pubblica alcune parti del rapporto Taguba che verrà formalmente desecretato solo il 4 maggio.
1 maggio 2004. Il quotidiano inglese Daily Mirror pubblica delle foto che ritraggono soldati in divisa britannica che compiono abusi su prigionieri iracheni. Si apre il caso anche in Gran Bretagna. Qualche giorno dopo però le foto pubblicate dal Daily Mirror si riveleranno false. Il primo ministro Tony Blair dichiara alla Bbc: «Se queste cose (indistintamente) sono state compiute esse sono completamente e totalmente inaccettabili». Comunque aggiunge Blair: «Dobbiamo dire che ci sono migliaia di soldati britannici che stanno facendo un lavoro molto coraggioso e straordinario nell’interesse del popolo iracheno».
In un discorso alla nazione pronunciato via radio, Bush fa il punto sulla situazione in Iraq. Elogia il lavoro della Coalizione, ringrazia le truppe e afferma: «Un anno dopo […] la vita per il popolo iracheno è molto lontana dalla crudeltà e dalla corruzione del regime di Saddam. Al più elementare livello di giustizia, le persone non scompaiono più in prigioni politiche, camere di tortura e fosse comuni». Dopo aver elencato tutto ciò che è migliorato in Iraq (elettricità, banche, scuole), aggiunge: «Nella causa di un Iraq libero e stabile, i nostri uomini e le nostre donne stanno facendo un lavoro duro e stanno sopportando grandi sacrifici». In tutto il discorso non un accenno alle atroci immagini che hanno irrimediabilmente incrinato questa edulcorata immagine della missione in Iraq.
4 maggio 2004. In una conferenza stampa Rumsfeld dichiara: «La mia impressione è che ciò che ci viene imputato appartiene alla categoria degli abusi, che io credo sia tecnicamente diversa da quella delle torture […] non so se è corretto dire che hanno avuto luogo torture». Ad una precisa domanda sulle notizie di abusi a Guantanamo e in altri centri di detenzione americani, Rumsfeld risponde: «Non sono nelle condizioni di dire se ci sono altre affermazioni di abusi». Amnesty International, la Croce Rossa, Human rights watch,il Center for Costitutional Rights e diversi giornali da più di due anni parlano al vento.
5 maggio 2004. In un’intervista alla tv araba al-Arabija Bush dichiara che gli abusi «rappresentano le azioni di poche persone» e assicura che ci sarà una «piena indagine» per accertare la verità.
Per la prima volta dallo scoppio dello scandalo, parla anche il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi: «Siamo addolorati e impressionati», dice, «per quello che è emerso, non crediamo tuttavia che questo cambi il senso della nostra missione umanitaria in Iraq».
7 maggio 2004. Donald Rumsfeld, assieme a membri dell’esercito tra cui il generale Myers, è chiamato a testimoniare davanti la Commissione per i servizi militari del Senato. Esordisce dichiarando la propria «completa responsabilità» in qualità di segretario della Difesa per quanto è accaduto e chiede scusa «a quegli iracheni che sono stati maltrattati da membri delle forze armate americane» ma non a tutto il popolo iracheno, come da più parti si chiedeva. Ribadisce la tesi che si tratta di atti compiuti da pochi soldati. Un altro aspetto della strategia difensiva messa in atto dal Pentagono è quella di appellarsi alla «naturale imperfezione dell’essere umano». Come già nella conferenza stampa del 4 maggio, Rumsfeld ribadisce che nonostante l’America sia un paese meraviglioso, esso non è perfetto. Né sono perfetti gli americani. Qualcuno sbaglia. Questi ragazzi hanno sbagliato e saranno puniti. A chi gli ha fatto notare che il rapporto del generale Miller suggeriva di «porre le condizioni per il successo degli interrogatori e per la valorizzazione dei prigionieri», Rumsfeld risponde che la «valorizzazione dei prigionieri» non significa «fiaccarne la resistenza». Infine alla domanda secca del senatore Hunter se ci fossero «regolamenti ufficiali sul trattamento dei prigionieri che indirizzano a qualcosa di simile a ciò che abbiamo visto [nelle foto]», il segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America risponde con decisione «absolutely not».
8 maggio 2004. Nel discorso alla nazione Bush ribadisce la tesi dell’«errore di pochi».
11 maggio 2004. Nel giorno in cui il generale Taguba depone davanti alla Commissione, il senato approva all’unanimità una risoluzione di condanna delle sevizie compiute sui detenuti iracheni a Baghdad ed invita ad accertare al più presto al verità.
12 maggio 2004. Altre foto vengono mostrate ai membri del Congresso americano, che le definiscono molto più scioccanti di quelle già viste. Non verranno mai rese pubbliche.
La soldatessa Lynndie England, uno dei volti più noti dello scandalo, la ragazza che tiene al guinzaglio un detenuto nudo, dichiara alla Cbs che le sue azioni erano imposte da «persone della più alta catena di comando» e avevano l’obiettivo di mettere sotto pressione psicologica i prigionieri.
13 maggio 2004. Shafiq Rasul e Asif Iqbal, cittadini britannici rilasciati da Guantanamo l’8 marzo 2004 dopo più di due anni di detenzione, inviano una lettera alla Commissione servizi militari del Senato degli Stati Uniti in cui denunciano i maltrattamenti subiti. I due sostengono che quel tipo di trattamento era frutto di «politiche e ordini ufficiali» e affermano che il regime divenne ancora più duro sotto il generale Miller. Rasul e Iqbal sono stati rilasciati senza alcuna accusa (pubblichiamo ampi stralci della lettera nell’articolo seguente, parte II delle testimonianze). I due, assieme ad un altro ex detenuto britannico, Rhuhel Ahmed, scriveranno anche un dettagliato rapporto di 115 pagine che sarà pubblicato il 4 agosto 2004 (19).
15 maggio 2004. Sul New Yorker esce un’inchiesta di Seymur Hersh che accusa il Pentagono di aver favorito le torture. Il dipartimento di Difesa smentisce. Nella nota del Pentagono si legge che gli abusi «non derivano da alcun programma di addestramento, manuale in dotazione all’esercito o ordine emesso dal dipartimento di Difesa. Nessun funzionario responsabile del dipartimento di Difesa ha approvato alcun programma che avrebbe plausibilmente potuto avere lo scopo di provocare abusi del tipo documentato dai filmati e dalle fotografie recenti» (20).
19 maggio 2004. Jeremy Sivits, il soldato accusato di aver scattato le foto, ha confessato ed è stato condannato ad un anno di carcere, diminuzione di grado da soldato speciale a soldato semplice e congedo con disonore.
21 maggio 2004. Il Washington Post pubblica le dichiarazioni giurate rilasciate da alcuni prigionieri di Abu Ghraib nel gennaio 2004. Le pubblichiamo qui integralmente, per la prima volta in Italia, nell’articolo seguente, parte I delle testimonianze.
23 maggio 2004. Finalmente il Pentagono decide di prendere provvedimenti per evitare in futuro scandali come quello che sta travolgendo l’America in questi giorni. Secondo quanto riferito dal giornale britannico The Business, che cita fonti del Pentagono, Rumsfeld ha vietato l’uso di videofonini e fotocamere digitali nelle basi militari in Iraq. La vera preoccupazione dell’amministrazione Bush finalmente è chiara. Non abolire la tortura come metodo di interrogatorio, ma semplicemente evitare che si sappia.
7 giugno 2004. Il Wall Street Journal pubblica alcune parti di un memorandum in cui un pool di avvocati dichiara legali una serie di tecniche di interrogatorio e stabilisce che il presidente degli Stati Uniti non è vincolato dalle leggi internazionali (si tratta di una bozza, datata 6 marzo 2003, del rapporto del «working group» del 4 aprile 2003).
Il giorno successivo il procuratore generale Ashcroft rifiuta di fornire una copia del memorandum al Congresso. Il rapporto completo verrà desecretato il 22 giugno.
12 giugno 2004. Vengono desecretati due manuali degli interrogatori della Cia degli anni Sessanta e Ottanta. I due manuali contengono ampie sezioni dedicate all’analisi minuziosa delle tecniche di coercizione. A dimostrazione di come la tortura fosse una sistematica tecnica insegnata e usata da sempre dall’intelligence americana, come con ogni probabilità da quelle di molti altri paesi.
21 giugno 2004. Udienza preliminare del processo contro il soldato speciale Charles Graner, il sergente Javal Davis e il sergente Ivan «Chip» Frederick.
Il giudice ha ordinato che il carcere di Abu Ghraib non sia demolito, come voleva il presidente George Bush, perché è una prova nel processo.
22 giugno 2004. Vengono desecretati i memoranda governativi scritti tra la fine di dicembre 2001 e l’aprile 2003 che dimostrano che l’amministrazione americana ha favorito l’impiego di tecniche di interrogatorio «aggressive» (vedi la prima parte di questa cronologia).
23 giugno 2004. Gli Stati Uniti sono costretti a ritirare la mozione per la richiesta di immunità per i propri soldati in Iraq presentata all’Onu. Dopo lo scandalo di Abu Ghraib le Nazioni Unite non sono più disposte a «coprire» le forze armate americane. Poco male comunque. Il giorno dopo l’immunità viene confermata da un accordo bilaterale con il governo provvisorio iracheno (cioè con il governo che gli americani hanno costituito pochi giorni prima e a cui sarà trasferita la sovranità a fine mese). L’accordo prevede che i soldati americani non possano essere processati da tribunali iracheni e dovranno rispondere solo alla giustizia americana.
26 giugno 2004. Giornata internazionale contro la tortura, un anno dopo. Questa volta Bush tace.
28 giugno 2004. Arriva una sentenza della Corte Suprema che scardina uno dei pilastri dell’edificio costruito dall’amministrazione Bush (vedi memorandum del 28 dicembre 2001). Nel caso Rasul v. Bush la Corte dichiara la competenza delle corti americane per i ricorsi dei detenuti a Guantanamo. Dopo più di due anni di detenzione senza la possibilità di andare davanti ad una corte, i detenuti di Guantanamo potranno appellarsi alle corti ordinarie americane per aver riconosciuti i propri diritti. L’America dei diritti e delle garanzie ha finalmente rialzato la testa.
31 luglio 2004. Alcuni detenuti francesi rilasciati da Guantanamo raccontano a Le Monde di aver subito torture simili a quelle viste ad Abu Ghraib.
3 agosto 2004. Il reparto di riservisti della 372esima brigata al centro dello scandalo rientra in patria.
A Fort Bragg, negli Stati Uniti, si svolge l’udienza preliminare del processo contro il soldato Lynndie England. Con il pancione coperto dalla mimetica (la England ha concepito un figlio proprio ad Abu Ghraib e proprio da un altro degli accusati di tortura, Graner), la soldatessa non ha mostrato alcun segno di pentimento. Rischia fino a 38 anni di carcere.
11 agosto 2004. Un’altra soldatessa, Megan Ambuhl, è stata incriminata per le torture ad Abu Ghraib. Salgono così a sette i militari finora imputati per questa vicenda: Sivits, Davis, Graner, England, Frederick, Harman, Ambuhl. Il più alto in grado è un sergente.
18 agosto 2004. Ad Abu Ghraib i soldati americani uccidono due detenuti e ne feriscono altri cinque. Secondo il comunicato dell’esercito americano i militari sarebbero intervenuti per sedare una sommossa scoppiata tra i prigionieri.
20 agosto 2004. Steven Miles sulla nota rivista medica britannica The Lancet accusa il personale medico del carcere di Abu Ghraib di essere stato complice degli abusi. «Il sistema medico», scrive Miles basandosi, tra gli altri documenti, anche sulle dichiarazioni dei prigionieri iracheni che pubblichiamo qui nell’articolo seguente, parte I delle testimonianze, «ha collaborato con la programmazione e l’esecuzione di interrogatori psicologicamente e fisicamente coercitivi».
Negli stessi giorni i media americani riportano i contenuti di un nuovo rapporto sulle torture, scritto dal generale George Fay (il rapporto verrà reso noto il 25 agosto). Secondo indiscrezioni fornite al Washington Post da ufficiali del dipartimento di Difesa che mantengono l’anonimato, il rapporto afferma che «lo scandalo non è stato causato da un piccolo gruppo di soldati ribelli della polizia militare, ma è il risultato di mancanza e nella leardeship che raggiunge i più alti livelli del comando statunitense in Iraq». Oltre a quelli già incriminati, il rapporto indica un’altra ventina di soldati quali colpevoli di sevizie sui prigionieri e anche alcuni civili che lavoravano nelle aziende appaltatrici della gestione di Abu Ghraib. «Per nessun ufficiale dell’esercito», precisa il Washington Post, «sono attese imputazioni penali».
24 agosto 2004. A quasi tre anni dall’apertura della base di Guantanamo si inaugurano i processi davanti alle commissioni militari (13 novembre 2001) per quattro detenuti: due yemeniti, Salim Ahmed Hamdan e Alì Hamza Ahmed Sulayman al-Bahlul, l’australiano David Hicks e il sudanese Ibrahim Ahmed Mahmoud al-Qosi.
Nel presentare il suo rapporto sulle torture ad Abu Ghraib, James Schlasinger afferma che «gli abusi non erano solo dovuti all’incapacità dei soldati di rispettare gli standard o dei loro capi di imporre le discipline. C’erano anche responsabilità istituzionali e personali a livelli più alti».
Schlasinger era stato incaricato da Rumsfeld in persona di condurre l’inchiesta.
Quel che le foto non hanno mostrato (e che Bush non avrebbe voluto farvi leggere)
Le testimonianze dei torturati di Abu Ghraib, Guantanamo e altre basi Usa descrivono fin nei dettagli ciò che le pur scioccanti foto non mostrano: umiliazioni sessuali, stupri (anche di minori), ingiurie, minacce, violenze. È questa la democratica e superiore ‘civiltà’ da esportazione?
Pubblichiamo qui diverse testimonianze di prigionieri detenuti ad Abu Ghraib, a Guantanamo e in altre basi americane in Afghanistan. Senza entrare nel merito delle eventuali responsabilità individuali, vale la pena di ricordare che si tratta di prigionieri che non sono mai stati condannati da nessuna corte. Non stanno dunque scontando alcuna pena inflitta da un organo giudiziario, militare o civile che sia. Molti di loro non conoscono neanche di che cosa sono accusati e alcuni sono stati rilasciati senza imputazione, dopo anni di detenzione.
1. Testimonianze dall’Iraq Quelle che seguono sono le dichiarazioni giurate rilasciate da 13 prigionieri nel carcere di Abu Ghraib (in tutto 14 deposizioni, uno di loro ne ha fornite due) tra il 16 e il 21 gennaio del 2004. Queste testimoniane sono state rese pubbliche dal Washington Post il 21 maggio 2004 e gli originali sono ora disponibili all’indirizzo internet http://www.washingtonpost.com/wp-srv/world/iraq/abughraib /swornstatements042104.html.
Come si legge in calce ad alcune delle traduzioni originali inglesi, le dichiarazioni dei prigionieri sono state raccolte dalla Squadra interrogatori/colloqui ai prigionieri, 10° battaglione di polizia militare, 3° gruppo di polizia militare del complesso carcerario di Abu Ghraib nell’ambito di un’inchiesta interna sul trattamento dei prigionieri. Queste dichiarazioni sono tra quelle esaminate dal generale Antonio Taguba nella sua indagine conclusa nel febbraio 2004 (vedi cronologia 29 febbraio 2004). I nomi indicati con XXX sono stati resi illeggibili dal Washington Post.
Dichiarazione giurata rilasciata da Kasim Mehaddi Hilas, detenuto numero 151108, il 18 gennaio 2004. In nome di Dio, io giuro su Dio che parlerò di tutto ciò di cui sono stato testimone. Non sto dicendo questo per ottenere qualcosa di materiale e non ho ricevuto pressioni per farlo da nessuna forza. Innanzitutto, io parlerò solo di ciò che mi è successo nella prigione di Abu Ghraib. Non parlerò di ciò che mi è accaduto quando ero in prigione prima, perché non mi è stato chiesto, anche se è stato terribile.
1) Mi hanno strappato tutti i miei vestiti, anche le mutande. Mi hanno dato mutande da donna, di colore rosa a fiori e mi hanno messo un sacco sulla faccia. Uno di loro mi ha sussurrato nell’orecchio «oggi ti scopo», e lo ha detto in arabo. Chiunque era con me ha subito le stesse cose. Questo è ciò che i soldati americani hanno fatto, e c’era un traduttore con loro, chiamato Abu Hamid e una soldatessa, la cui pelle era color oliva e questo accadeva il 3 o 4 ottobre 2003 intorno alle 3 o le 4 del pomeriggio. Quando mi hanno portato in cella, il traduttore Abu Hamid è venuto con un soldato americano il cui grado credo fosse sergente. Mi ha detto «frocio» poiché indossavo mutande da donna, e poi mi ha chiesto «perché porti mutande da donna?» ed io ho detto loro «perché voi me le fate indossare». Il trasferimento dal Campo B all’Isolamento è stato pieno di percosse, ma dei sacchi coprivano le nostre teste così non abbiamo potuto vedere le loro facce. Mi hanno costretto ad indossare quelle mutande tutto il tempo, per 51 giorni. E la maggior parte del tempo non avevo altro da mettere.
2) Ho subito i più duri maltrattamenti da Grainer [Graner]. Egli mi ha legato le mani con del ferro dietro la schiena al metallo della finestra, al punto che i miei piedi non toccavano il pavimento e io sono rimasto appeso lì per circa cinque ore soltanto perché ho chiesto che ore fossero perché volevo pregare. E poi hanno preso tutti i miei vestiti e mi hanno messo le mutande da donna sopra la testa. Dopo che mi ha liberato dalla finestra, mi ha legato al letto fino all’alba. Mi ha portato nella stanza della doccia e poi mi ha riportato nella mia cella. Mi ha proibito di mangiare per tutta la notte, nonostante io fossi digiuno da tutto il giorno. Grainer e altri due soldati scattavano foto di tutto quello che mi facevano. Non so se hanno fatto foto proprio a me perché mi hanno colpito talmente forte che ho perso conoscenza per più di un’ora.
3) Non ci hanno dato cibo per un intero giorno e un’intera notte, mentre eravamo a digiuno per il Ramadan. E il cibo era solo un pacchetto di cibo di emergenza.
Adesso parlo di ciò che ho visto:
1) Hanno portato tre prigionieri completamente nudi e li hanno legati con le manette e li hanno attaccati l’uno all’altro. Ho visto i soldati americani colpirli con un pallone da calcio e scattare delle foto. Ho visto Grainer dare un pugno molto forte ad un prigioniero dritto in faccia perché il prigioniero aveva rifiutato di togliersi le mutande e ho sentito che il prigioniero supplicava di aiutarlo. Poi i soldati americani hanno detto di fare come gli omosessuali (scopare). E c’era uno dei soldati americani che loro chiamavano Sergente (pelle nera). C’erano 7 o 8 soldati. C’erano anche delle soldatesse che scattavano foto e questo è successo nel primo giorno di Ramadan. E hanno ripetuto le stesse cose il secondo giorno di Ramadan. E hanno ordinato ai prigionieri di strisciare mentre li ammanettavano insieme nudi.
2) Ho visto XXX che scopava un ragazzo. Poteva avere tra i 15 e i 18 anni. Il ragazzo è rimasto seriamente ferito e loro hanno coperto tutte le porte con delle lenzuola. Poi quando ho sentito le urla mi sono arrampicato sulla porta perché sopra non era coperta e ho visto XXX, che indossava l’uniforme militare, infilare il suo uccello nel culo del ragazzino. Non ho potuto vedere la faccia del ragazzo perché non era davanti alla porta. E la soldatessa scattava le foto. XXX, penso che sia XXX per via dell’accento, e non era né magro né basso, faceva come un omosessuale (gay). Questo accadeva nella cella numero 23 per quanto mi ricordi.
3) Nella cella che è proprio sotto di quella, sul lato nord, ed io ero proprio di fronte sull’altro lato, hanno rimesso le lenzuola sulle porte. Grainer e il suo aiutante hanno ammanettato un prigioniero nella stanza numero 1. Si chiama XXX ed era un cittadino iracheno. Lo hanno legato al letto e gli hanno infilato una lampada fluorescente nel culo e lui gridava per chiedere l’aiuto di Dio. XXX è stato colpito e maltrattato molto perché io lo sentivo urlare e loro ci proibivano di stare vicino alle porte quando facevano queste cose. Era il periodo del Ramadan, intorno alla dodicesima notte quando li ho visti infilargli un bastone nel culo. La soldatessa scattava le foto.
4) Ho visto più di una volta uomini stare su un secchio d’acqua capovolto completamente nudi. E portare delle sedie sopra le loro teste stando sotto la ventola del corridoio dietro il tramezzo di legno e anche nella doccia.
Non ho passato neanche una notte in tutto il tempo che sono stato lì senza vedere, sentire o provare le cose che mi sono successe.
E ripeto il giuramento: giuro su Allah onnipotente sulla verità di ciò che ho detto. Allah mi è testimone.
Dichiarazione giurata rilasciata da XXX, detenuto numero XXX, il 21 gennaio 2004. Sono la persona sopra citata. Sono entrato nella prigione di Abu Ghraib il 10 luglio 2003, dopo essere stato portato via dall’area di Baghdad. Mi hanno messo nell’area delle tende e poi mi hanno portato nell’«Hard Site». Il primo giorno mi hanno messo in una stanza buia e hanno iniziato a colpirmi alla testa, allo stomaco e alle gambe. Mi hanno fatto alzare le mani e sedere sulle ginocchia. Sono stato così quattro ore. Poi è venuto l’inquirente e mi guardava mentre mi picchiava. Sono stato in quella stanza 5 giorni, nudo senza vestiti. Poi mi hanno portato in un’altra cella al piano di sopra. Il 15 ottobre 2003 hanno rimpiazzato l’esercito con la polizia irachena e da quel momento hanno iniziato a maltrattarmi in ogni maniera. La prima punizione è stata portarmi nella stanza numero 1, mi hanno messo le manette e mi hanno ammanettato in alto per 7 o 8 ore. Ciò mi ha provocato la rottura della mano destra e avevo un taglio che sanguinava e da cui usciva pus. Mi hanno tenuto così il 24, 25 e 26 ottobre. Nei giorni successivi mi hanno messo un sacco sulla testa e, ovviamente, per tutto questo tempo io ero senza vestiti e senza niente su cui dormire. Un giorno a novembre hanno iniziato con altri tipi di maltrattamenti. Un poliziotto americano è venuto nella mia stanza e mi ha messo un sacco in testa, mi ha ammanettato e mi ha portato fuori nel corridoio. Ha iniziato a colpirmi, lui e altri cinque poliziotti americani. Potevo vedere solo i loro piedi da sotto il sacco. Un paio di questi poliziotti erano donne. Sentivo le loro voci e ho visto due della polizia che mi colpivano prima di infilarmi il sacco in testa. Uno di loro portava gli occhiali. Non ho potuto leggere il suo nome perché aveva messo un nastro sopra il suo nome. Alcune delle cose che mi hanno fatto sono state: farmi sedere come una cane mentre loro tenevano la corda del sacco e farmi abbaiare come un cane e loro ridevano di me. E [ho potuto vedere che] quel poliziotto era di colore rossiccio, perché mi ha sbattuto la testa al muro. Quando l’ha fatto il sacco è volato via e uno della polizia mi ha detto in arabo di strisciare, e io ho strisciato sulla pancia e la polizia mi sputava addosso mentre strisciavo e mi colpiva sulla schiena, sulla testa e sui piedi. È andata avanti così finché il loro turno è finito verso le 4 del mattino. La stessa cosa accadde i giorni successivi.
Ricordo anche che la polizia mi ha colpito sulle orecchie, prima di – come al solito – picchiarmi, ammanettarmi, infilarmi la testa nel sacco, farmi mettere nelle posizioni dei cani e farmi strisciare di fronte a sei persone radunate. Uno di loro era un traduttore iracheno di nome Shaheen, aveva la pelle rossiccia e i baffi. Poi la polizia ha iniziato a colpirmi sui reni e poi mi hanno colpito sull’orecchio destro che ha cominciato a sanguinare e ho perso conoscenza. Poi il traduttore iracheno mi ha tirato su e mi ha detto: «Stai andando a dormire». Poi sono andato nella stanza. Mi sono svegliato di nuovo. Sono rimasto incosciente per circa due minuti. Il poliziotto mi ha trascinato nella stanza dove mi ha lavato l’orecchio e ha chiamato il dottore. Il dottore iracheno è venuto e mi ha detto di non potermi portare in clinica, quindi mi ha sistemato nel corridoio. Quando mi sono svegliato ho visto sei poliziotti americani.
Pochi giorni prima che mi colpissero all’orecchio, il poliziotto americano, il tizio con gli occhiali mi ha messo delle mutande da donna rosse sulla testa. E poi mi ha legato alla finestra che è nella cella con le mani dietro la schiena finché ho perso conoscenza. E ancora quando ero nella stanza numero 1 mi hanno detto di stendermi a pancia a terra e loro saltavano dal letto sopra la mia schiena e le mie gambe. E altri due mi sputavano addosso, mi coprivano di ingiurie e mi tenevano le mani e le gambe. Dopo che il tipo con gli occhiali si è stancato, due soldati americani mi hanno messo sul pavimento e mi hanno legato alla porta mentre ero steso a pancia a terra. Un poliziotto mi ha pisciato addosso e rideva di me. Poi mi ha liberato le mani e volevo lavarmi e il soldato è tornato nella stanza, e lui e il suo amico mi hanno urlato di stendermi giù, e io l’ho fatto.
E poi il poliziotto mi ha aperto le gambe, con un sacco sulla testa, e si è seduto tra le mie gambe sulle sue ginocchia ed io lo guardavo da sotto il sacco e mi voleva scopare perché l’ho visto che apriva i pantaloni, allora ho cominciato a urlare forte e l’altro poliziotto ha cominciato a colpirmi con i piedi sul collo e mi ha messo un piede in testa così che non potessi urlare.
Dopo sono andati via e il tipo con gli occhiali è tornato con un’altra persona e mi ha portato via dalla stanza e mi hanno messo di nuovo dentro la stanza buia e hanno iniziato a picchiarmi con una scopa che era lì. Poi hanno messo l’altoparlante dentro la stanza e hanno chiuso la porta e lui urlava nel microfono. Poi hanno rotto una lampada fluorescente e mi hanno versato [il contenuto] addosso finché sono diventato incandescente e loro ridevano. Mi hanno portato nella stanza e mi hanno fatto segno di mettermi a terra. E uno della polizia mi ha infilato una parte del bastone che porta sempre con sé in culo e ho sentito che è andato dentro per circa due centimetri. Ho iniziato ad urlare, e lui l’ha tirato fuori e l’ha lavato con l’acqua dentro la stanza. E le due ragazze americane che erano lì mentre mi picchiavano, loro mi colpivano con una palla fatta di spugna sull’uccello. E quando ero legato nella mia stanza, una delle ragazze, con i capelli biondi, bianca, giocava con il mio uccello. Ho visto dentro questa struttura molti maltrattamenti tipo quelli che hanno fatto a me e anche di più. E loro mi facevano delle foto durante tutti questi fatti.
Dichiarazione giurata rilasciata da Ameen Sa’eeo al-Sheick, detenuto numero 151362, il 16 gennaio 2004. Io, Ameen Sa’eed al-Sheick, desidero rilasciare la seguente deposizione giurata:
Sono Ameen Sa’eed al-Sheick. Sono stato arrestato il 7 ottobre 2003. Mi portarono alla prigione di Abu Ghraib dove mi tennero in una tenda per una notte. Durante la notte le guardie [venivano] ogni ora o ogni due e mi minacciavano di torture e punizioni. Il secondo giorno mi trasferirono nell’edificio. Prima di entrare un soldato mi mise in testa un sacco per la sabbia. Dopo di che non ho visto più niente. Una volta dentro l’edificio cominciarono ad urlarmi contro. Mi denudarono e mi chiesero: «Preghi Allah?». Risposi: «Sì». Dissero: «Vaffanculo» e «Vaffanculo Allah». Uno di loro disse: «Non uscirai sano da qui, ne uscirai invalido». E mi chiese: «Sei sposato?». Risposi: «Sì». Dissero: «Se tua moglie ti vedesse in questo stato ne sarebbe delusa». Uno disse: «Ma se fosse qui ora non rimarrebbe insoddisfatta perché la violenterei». Poi uno di loro mi portò alle docce, mi tolse il sacco e fui in grado di vederlo; un uomo nero che mi disse di fare la doccia e che sarebbe entrato a violentarmi e io ebbi molta paura. In seguito mi rimisero il sacco per la sabbia in testa e mi condussero alla cella numero 5. Nel corso dei 5 giorni seguenti non ho mai dormito perché venivano continuamente in cella chiedendomi di rimanere in piedi per ore e ore. Di solito sbattevano la porta esterna che faceva un rumore molto forte in cella. E quel soldato nero mi portò ancora una volta alle docce dove rimase in piedi a guardarmi. E mi minacciò ancora di stupro. Poi cominciarono ad interrogarmi. Mentii loro e mi minacciarono di punizioni molto severe. Chi mi interrogava si avvicinò e disse: «Se dici la verità ti lasceremo andare appena possibile prima del Ramadan». Così confessai e dissi la verità.
Quattro giorni dopo mi portarono all’accampamento e non rividi più le persone che mi avevano interrogato. Fui di nuovo interrogato da nuove persone. Dopo che gli avevo detto la verità mi accusarono di ingannarli. Dopo 18 giorni nell’accampamento mi riportarono in prigione. Chiesi il motivo e risposero che non lo sapevano. Due giorni prima della fine del Ramadan (Ied) venne una persona per interrogarmi con una donna ed un interprete. Mi disse che ero molto vicino a rimanere in prigione per sempre. Cominciò e finì l’interrogatorio con quella frase. Il primo giorno dello Ied successe l’incidente della «fucilazione», fui colpito da diversi proiettili e trasferito all’ospedale. Lì venne l’inquirente «Steve» che mi minacciò delle più violente torture una volta tornato in prigione. Gli dissi: «Mi dispiace di quanto è accaduto». Lui disse: «Non scusarti adesso perché te ne pentirai più tardi». Dopo diversi giorni tornò e mi disse: «Se ti torturassi credi che sarebbe giusto?». Gli chiesi: «Perché?». Rispose che aveva bisogno che gli dessi maggiori informazioni. Gli dissi: «Ti ho già detto tutto quello che so». Rispose: «Lo vedremo quando tornerai in prigione».
Dopo 17 o 18 giorni venni dimesso dall’ospedale e riportato ad Abu Ghraib, lui mi portò da qualche parte ed un soldato mi puntò una pistola alla testa. Disse: «Vorrei poterti uccidere adesso». Passai la notte in quel posto e la mattina successiva mi portarono alla prigione. Mi accolsero con urla e spintoni. Mi obbligarono a camminare dal cancello principale fino alla mia cella altrimenti mi avrebbero picchiato sulla gamba rotta. Stavo davvero male. Quando arrivai alla cella presero le mie stampelle e non capii il perché. Dentro la cella mi chiesero di spogliarmi completamente nudo. Non mi hanno dato alcuna coperta o vestito o chissà che. Ogni una o due ore i soldati venivano a minacciarmi di morte o di torture o di rimanere in prigione per sempre e che mi avrebbero trasferito a Guantanamo. Uno di loro disse che non era riuscito a spararmi la prima volta ma di sicuro ce l’avrebbe fatta la seconda. E mi disse che avevano intenzione di gettare una pistola o un coltello nella cella per poi spararmi. A volte dicevano: «Faremo in modo che preferirai morire che vivere».
Di notte venne il sorvegliante, il suo nome è Graner, aprì la porta ed entrò con tanti soldati. Mi obbligarono a mangiare carne di porco e mi riempirono la bocca di liquore. Mi versarono questa sostanza sul naso e sulla fronte ed era molto calda. Le guardie cominciarono a colpirmi ripetutamente sulla gamba rotta con un bastone di plastica dura. Disse che si era fatto male alla gamba e mi ha mostrato la ferita e che avrei pagato per quello. Mi spogliarono nudo. Uno disse che mi avrebbe violentato. Mi disegnò la figura di una donna sulla schiena e mi fece rimanere in una vergognosa posizione con il culo per aria. Qualcun altro mi chiese: «In cosa credi?». Risposi: «Credo in Allah». Così lui disse: «Ma io credo nella tortura e ti torturerò». «Quando tornerò a casa dirò a chi verrà dopo di me di torturarti». Poi mi ammanettarono e mi appesero al letto. Mi ordinarono di maledire l’islam e poiché ricominciarono a colpirmi la gamba rotta, maledii la mia religione. Mi ordinarono di ringraziare Gesù di essere vivo. E lo feci. Ciò è contro la mia fede. Mi lasciarono appeso al letto e poco dopo persi conoscenza. Quando mi risvegliai mi ritrovai ancora appeso tra il letto ed il pavimento. Ancora oggi non sento più niente da tre dita della mano destra. Mi sedetti sul letto e uno di loro era alla porta e mi pisciò addosso. Disse: «Graner, il tuo prigioniero si è pisciato addosso». Graner si avvicinò e rise. Dopo diverse ore Graner venne e mi slegò, così dormii. Al mattino vennero persone che non avevo mai visto ad umiliarmi e a spaventarmi con la minaccia di torture.
La notte successiva arrivò Graner e mi legò alla porta della cella. Gli dissi: «Ho una spalla rotta ed ho paura che si rompa di nuovo perché il dottore mi ha detto di non mettere le braccia dietro la schiena». Disse: «Non ci credo». Poi mi tenne appeso alla porta per più di otto ore. Gridai di dolore per tutta la notte. Graner e altri venivano e mi chiedevano: «Ti fa male?». Rispondevo: «Sì». Dicevano: «Bene» e mi colpivano sulla nuca. Poi un soldato mi slegò. La mia spalla destra ed il polso erano malconci e mi facevano molto male. Mentre ero appeso alla porta persi più volte conoscenza. Poi dormii. Al mattino dissi al dottore che probabilmente la mia spalla era rotta perché non potevo [muovere] la mano. Sentivo un dolore acuto. Controllò la spalla e mi disse: «Verrò con un altro dottore domani che ti visiterà». Il giorno dopo l’altro dottore controllò la spalla e disse che mi avrebbe portato all’ospedale il giorno dopo ancora per fare i raggi X. Ed il giorno dopo mi portò all’ospedale e mi fece i raggi X alla spalla e mi disse: «La tua spalla non è rotta, ma è gravemente lesionata». E mi riportarono alla prigione.
Ogni volta che mi facevano uscire e rientrare dovevo strisciare sulla schiena perché non potevo camminare. Il giorno dopo, di notte, vennero dei soldati che mi fecero delle foto nudo. Mi umiliarono e maltrattarono e minacciarono. Poi vennero le persone per interrogarmi perché identificassi tra le foto la persona che mi diede le pistole. Ma quella persona non c’era tra quelle foto. Quando glielo dissi loro risposero che mi avrebbero torturato e che sarebbero venuti ogni notte a farmi la stessa domanda accompagnati da soldati armati e mi puntarono un’arma alla testa minacciandomi di morte. A volte [venivano] con i cani e mi legavano alla porta lasciando che i cani cercassero di mordermi. Successe per una settimana o più.
R: Ameen Sa’eed al-Sheick.
D: Hai mai visto Graner picchiare un prigioniero?
D: Hai mai visto Graner o altre guardie far montare i prigionieri nudi uno addosso all’altro?
D: Hai mai visto Graner o altre guardie fare foto ai prigionieri?
D: Hai mai visto Graner o altre guardie fare foto durante le punizioni?
D: Hai mai visto Graner o altre soldati fare foto mentre picchiavano i prigionieri?
D: Hai mai visto dei soldati che mettevano i prigionieri l’uno sull’altro nudi?
D: Hai mai visto le guardie o qualche altro soldato americano far prendere ai prigionieri nudi pose sessuali?
Dichiarazione giurata rilasciata da Mustafa Jassim Mustafa, detenuto numero 150542, il 17 gennaio 2004. Due giorni prima del Ramadan la guardia Grainer è venuta con altre guardie, essi portavano due prigionieri e le guardie Grainer e Davis gli hanno fatto togliere tutti i vestiti fino a rimanere nudi e hanno iniziato a picchiarli molto. Uno dei prigionieri stava sanguinando da una ferita che aveva sull’occhio. Allora hanno chiamato il dottore che è venuto e l’ha sistemato. Dopo di che hanno iniziato a picchiarlo di nuovo.
Mi hanno tolto tutti i vestiti fino a rimanere nudo per sette giorni e portavano gruppi di persone a guardarmi nudo.
Hanno portato un prigioniero con un caso civile, il suo nome è XXX. È stato portato dalla guardia Grainer e da Davis e c’era una terza guardia. Non so il suo nome. Lo hanno picchiato molto, poi gli hanno tolto tutti i vestiti e gli hanno messo un filo elettrico nel culo e hanno iniziato a fargli delle foto.
Grainer usava appendere i prigionieri per le mani alle porte e alle finestre in un modo che era veramente penoso per diverse ore e noi li sentivamo urlare.
Un giorno Grainer e Davis hanno portato sei capi e li hanno spogliati nudi. Hanno iniziato a torturarli e a fare foto e si divertivano. Quando è venuto il dottore per sistemare una persona ferita, Grainer ha preso l’ago dal dottore e ha iniziato a cucire il taglio della persona ferita.
Pochi giorni prima del Ramadan, Grainer e Davis e un’altra persona che è venuta con loro picchiavano selvaggiamente spesso un uomo di nome Amjed che era nella stanza numero 1. Lo picchiavano molto forte con un bastone e Grainer gli pisciava addosso e lo ha picchiato per circa una settimana finche gli hanno ferito un occhio ed è venuto il dottore.
Grainer e Davis, e il terzo uomo, picchiavano selvaggiamente spesso un uomo che veniva dalla Siria e lo spogliavano tutta la notte. Noi lo sentivamo urlare tutta la notte.
Ogni volta che venivano nuovi prigionieri Grainer e Davis li spogliavano, li picchiavano e facevano foto. Ricordo un prigioniero di nome Wessam.
Punto importante (2): tutte le guardie ad esclusione di Grainer e Davis sono molto buone con i prigionieri e i prigionieri come loro e li rispettano e sono molto felici con loro. Loro danno una buona immagine degli Stati Uniti e provano con il loro buon trattamento la grande differenza tra il partito Baath e gli Stati Uniti.
Dichiarazione giurata rilasciata da Mustafa Jassim Mustafa, detenuto numero 150542, il 18 gennaio 2004. Prima del Ramadan, Grainer ha iniziato a coprire tutte le stanze con delle lenzuola. Poi sentivo delle urla venire dalla stanza numero 1, a quel tempo io ero nella stanza numero 50 e quella era esattamente sotto di me così guardavo dentro la stanza. Ho visto XXX nella stanza numero 1 che era nudo e Grainer che gli infilava nel culo la luce fluorescente. XXX gridava per chiedere aiuto. C’era anche un altro uomo bianco alto che era con Grainer e lo aiutava. C’era anche una soldatessa, bassa, che faceva le foto di XXX. XXX è adesso nella cella numero 50.
Dichiarazione giurata rilasciata da Nori Samir Gunbar al-Yasseri, detenuto numero 7787, il 17 gennaio 2004. Io, Nori Samir Gunbar al-Yasseri, desidero rilasciare la seguente deposizione giurata:
Un giorno durante il Ramadan, non ricordo precisamente la data, fummo coinvolti in uno scontro al Reparto 2, così ci hanno portato in prigione. Appena arrivati ci hanno messo in testa sacchi di sabbia e hanno continuato a picchiarci e a chiamarci con nomi offensivi. Dopo averci tolto il sacco ci hanno fatto spogliare nudi come neonati. Poi ci ordinarono di prendere in mano il nostro pene e muovere la mano su e giù e tutto questo durante la notte. Cominciarono a fare foto come se fosse un film porno. Ci trattavano come animali, non umani. Continuarono a farlo per lungo tempo. Nessuno sembrava avere pietà di noi. Nient’altro che bestemmie e botte. Poi cominciarono a scrivere parole di cui non conosciamo il significato sui nostri culi. Dopo di che ci lasciarono nudi per due giorni, senza vestiti, senza materassi, come cani.
Ogni notte lo stesso militare veniva a picchiarci e ad ammanettarci fino alla fine del suo turno, alle 4.00. Successe per tre giorni e non ci ha mai portato da mangiare ad eccezione di pane e tè. Se le razioni avessero contenuto pollo, lo avrebbe gettato via. La prima notte in cui ci hanno fatto spogliare nudi ci hanno costretto a rimanere carponi su mani e ginocchia e ci hanno fatto montare uno sull’altro. Fecero fotografie da davanti e da dietro. E se qualcuno volesse i dettagli dell’operazione prenda i negativi da chi era di guardia quella notte e troverà che tutto ciò che ho detto è vero. Il giorno dopo quello del turno diurno ci ha dato dei vestiti ma all’inizio del turno notturno arrivò la stessa guardia che ci aveva torturati, prese i vestiti e ci lasciò nudi e ammanettati al letto. Alla fine del suo turno ci slegò e picchiò nello stomaco, ci colpì in testa ed in faccia. Poi tornò a casa.
Ho continuato a pensare che cosa quell’uomo bianco con gli occhiali bianchi ci avrebbe fatto la notte successiva. Quando lo vedo ho paura di morire. Anche per questo guardate le foto conservate tra le sue cose. Lui e le due soldatesse basse e il soldato nero in turno durante quella notte scura. Quando eravamo nudi ci ordinò di muovere la mano sull’uccello come se ci stessimo masturbando e quando abbiamo cominciato a farlo ha portato un altro carcerato, lo ha fatto sedere sulle ginocchia davanti al pene ed ha fatto foto in modo che sembrasse che il carcerato stesse tenendo il pene in bocca. Appena prima mi sono accorto che qualcuno stava giocando con il mio pene con una penna. Dopo di che fecero mettere Hashim di fronte a me e mi obbligarono a leccargli la faccia ma mi sono rifiutato perché è mio amico. Poi hanno chiesto ad Hashim di picchiarmi, così mi ha colpito nello stomaco. Sono stato io a chiedergli di farlo in modo che non lo picchiassero come hanno fatto con me quando mi sono rifiutato di colpire Hashim. Nori Samir, Hussein, Mustafa Mahadi Salah, Hashim, Hiadar, Hathem, Ahmed Sabri, questi erano i nomi delle persone che erano là quella notte che durò come mille notti.
R: Nori Samir Gunbar al-Yasseri.
D: Quanti soldati c’erano quella notte?
D: Sai i nomi dei soldati?
R: No, ma potrei descrivere uno di loro, il supervisore. Potrei farlo perché l’ho visto tutte le notti in cui sono stato là.
R: Bianco, muscoloso, porta occhiali chiari da medico. Ha un tatuaggio blu su una spalla. Non so quale spalla né il disegno del tatuaggio. Lavora ogni notte tra le 4 del pomeriggio e le 4 del mattino.
Dichiarazione giurata rilasciata da Shalan Said Alsharoni detenuto numero 150422, il 17 gennaio 2004. Durante uno di quei giorni le guardie torturarono i prigionieri. Quelle guardie erano Grainer, Davis ed un altro uomo. Torturarono per primo un uomo di nome Amjid, iracheno. Lo spogliarono e picchiarono finché svenne e lo insultarono e quando gli alzarono la testa gli ho visto il sangue che scendeva. Lo portarono in isolamento e lo picchiarono ogni notte.
Il turno serale fu terribile per i prigionieri. Ammanettarono tre prigionieri tra loro e spinsero il primo a mettersi sopra agli altri come se fossero gay e quando si rifiutarono Grainer li picchiò finché riuscirono nel loro intento di farli montare uno addosso all’altro e li fotografarono. Poi malmenarono un iracheno di nome Assad a cui ordinarono di rimanere in piedi fermo su di un cartone e cominciarono a gettargli addosso acqua e quella volta era gelata. Per torturarlo presero dei guanti con cui gli picchiarono l’uccello e i testicoli e lo ammanettarono alla porta della cella dove rimase in quella condizione per mezza giornata senza cibo e acqua. Dopo di che andarono a prendere giovani prigionieri iracheni e Grainer li torturò gettandogli addosso acqua dal secondo piano finché uno dei prigionieri cominciò a piangere e ad urlare e a dire: «Il mio cuore». Chiamarono i dottori per assisterlo mentre pensavano che stesse morendo. Dopo portarono sei persone e le picchiarono fino a farli cadere per terra ed il naso di uno di loro era rotto ed il sangue scendeva dal naso mentre urlava ma nessuno ci faceva caso e gli autori di tutte quelle botte erano Grainer e Davis ed un altro uomo di cui non conosco il nome. Venne il dottore per suturare il naso e Grainer chiese al dottore di insegnargli a suturare ed è andata proprio così, la guardia ha imparato a suturare. Prese filo e ago e si sedette a finire la sutura fino a finire l’operazione. Poi arrivò l’altro uomo a fare fotografie alla persona ferita che giaceva a terra. Dopo di che picchiarono il resto del gruppo fino a farli cadere. Ogni volta che uno cadeva lo obbligavano ad alzarsi in piedi. Grainer menò un uomo chiamato Ali il Siriano e lo picchiò fino a farlo impazzire. E gli diceva di salire al secondo piano nudo. Aprirono le porte delle celle per consentire a tutti i prigionieri di vederlo andare in giro nudo. Poi lo portarono in cella e per quattro giorni gli gettarono acqua addosso in modo che non potesse dormire. Prima di ciò stava nella cella numero 4. Lo appesero e lui gridava ma nessuno lo aiutò.
C’era un traduttore di nome Abu Adell l’Egiziano. Aiutava Grainer e Davis ed altri che non ricordo come se stessero guardando un film di tre giovani messi uno sull’altro da Abu Adell. Ed ognuno di loro fotografava con la propria macchina. Questo è ciò che ho visto e che ricordo come vero.
Dichiarazione giurata rilasciata da Mohanded Juma, detenuto numero 152307, il 18 gennaio 2004. Inizio dal primo giorno che sono andato nel reparto Al. Mi hanno spogliato dei miei vestiti e di tutta la roba che mi avevano dato e ho trascorso in questa situazione 6 giorni. Dopo mi hanno dato solo una coperta. Tre giorni dopo mi hanno dato un materasso e dopo un breve periodo di tempo, approssimativamente verso le due di notte, la porta si è aperta e Grainer era lì. Mi ha ammanettato con le mani dietro la schiena e mi ha legato i piedi e mi ha portato nella stanza della doccia. Quando hanno finito di interrogarmi la donna che mi interrogava se ne è andata. E poi Grainer e un altro uomo, che somiglia a Grainer ma non ha gli occhiali e ha i baffi ed era giovane e alto, sono venuti nella stanza. Mi hanno gettato in faccia del pepe e hanno iniziato a picchiarmi. È andata avanti per una mezz’ora. Poi hanno iniziato a picchiarmi con una sedia finché la sedia si è rotta. Dopo di che hanno iniziato a soffocarmi. A quel punto ho pensato che stavo morendo, ma per miracolo sono vivo. Poi hanno iniziato a picchiarmi di nuovo. Si sono concentrati a picchiarmi sul cuore finché non si sono stancati di picchiarmi. Si sono presi una piccola pausa e poi hanno iniziato a darmi dei calci molto forti finché sono svenuto.
Nel secondo episodio nel turno di notte, ho visto una nuova guardia che porta gli occhiali e ha la faccia rossa. Egli ha caricato la sua pistola e l’ha puntata verso molti prigionieri per minacciarli. Ho visto cose che nessuno vorrebbe vedere, cose allucinanti. Sono venuti al turno di mattina con due prigionieri ed erano padre e figlio. Erano entrambi nudi. Li hanno messi uno di fronte all’altro, hanno contato 1, 2, 3 e hanno tolto i sacchi che avevano in testa. Quando il figlio ha visto suo padre nudo è scoppiato a piangere. Stava piangendo perché ha visto suo padre. Poi la notte Grainer buttava il cibo nel gabinetto e diceva: «Vai a prenderlo e mangialo». E ho visto anche che nella stanza numero 5 portavano i cani. Grainer portava i cani che lo mordevano sulla gamba destra e sinistra. Era un iraniano e hanno iniziato a picchiarlo selvaggiamente nel corridoio centrale della prigione.
Dichiarazione giurata rilasciata da Abd Alwhab Youss, detenuto numero 150425, il 17 gennaio 2004. Un giorno mentre ero in prigione la guardia è venuta e ha trovato uno spazzolino da denti rotto e hanno detto che io stavo per attaccare la polizia americana. Io ho detto che uno spazzolino da denti non era una mina. Loro hanno detto: «Ti portiamo via i tuoi vestiti e il materasso per sei giorni e non ti picchiamo». Ma il giorno dopo la guardia è venuta e mi ha ammanettato alla porta della cella per due ore, poi mi ha portato in una stanza chiusa e più di cinque guardie mi hanno versato acqua fredda addosso, e mi hanno costretto a mettere la testa nell’urina di qualcuno che era già nella stanza. Dopo di che mi hanno picchiato con un bastone e hanno camminato sulla mia testa con i loro piedi mentre era ancora nell’urina. Mi premevano il culo con un bastone e ci sputavano sopra. Anche una donna, di cui non so il nome, stava sulle mie gambe. Hanno usato un altoparlante per urlare verso di me per tre ore. Faceva freddo. Ma per dire la verità quel giorno Joiner [Joyner] mi ha dato i miei vestiti e di notte Grainer me li ha portati via. La verità è che mi hanno dato i miei vestiti dopo tre giorni. Non hanno finito i sei giorni e grazie.
Dichiarazione giurata rilasciata da Hiadar Sabar Abed Miktub al-Aboodi, detenuto numero 13077, il 20 gennaio 2004. Quando sono andato la prima volta nell’«Hard Site», i soldati americani mi hanno preso, c’erano due soldati e un traduttore di nome Abu Hamed. Noi eravamo nel corridoio prima dell’«Hard Site» e hanno iniziato a toglierci i vestiti uno dopo l’altro. Dopo che mi hanno tolto i vestiti il soldato americano ha tolto chi portava gli occhiali, guardia notturna, e ho visto una soldatessa americana che loro chiamavano Ms Maya, davanti a me. Mi dicevano di toccarmi il pene davanti a lei. Poi mi hanno coperto di nuovo la testa, e mentre io stavo facendo quello che mi avevano chiesto, mi hanno tolto il sacco e ho visto il mio amico che stava proprio davanti a me sul pavimento. Poi mi hanno detto di sedermi a terra di fronte al muro. Hanno portato un altro prigioniero sulla mia schiena e anche lui era nudo. Poi mi hanno ordinato di piegarmi sulle ginocchia e di poggiare le mani a terra. E poi hanno messo altri tre sulla nostra schiena, nudi. Poi mi hanno ordinato di dormire a pancia a terra e hanno ordinato agli altri di dormire sopra di me nella stessa posizione e la stessa maniera per tutti noi. Eravamo in sei. Loro ridevano, scattavano foto, e camminavano sulle nostre mani e sulle nostre ginocchia. E noi dovevamo abbaiare come cani e se non lo facevamo iniziavano a picchiarci forte in faccia e sul petto senza pietà. Dopo di questo ci hanno portato nelle nostre celle, hanno tolto i materassi e hanno buttato dell’acqua sul pavimento e ci hanno fatto dormire a pancia a terra sul pavimento con i sacchi in testa e hanno fatto foto di tutto. Mr Joyner è arrivato al mattino e ci ha dato materassi, coperte e cibo ma il secondo tizio che portava gli occhiali era l’opposto: lui prende i materassi, ci lega le mani, ci picchia e non ci dà cibo. Tutto questo è durato per 10 giorni e il traduttore Abu Hamed era lì. L’ho visto solo quando sono arrivato, ma dopo sapevo che era lì perché sentivo la sua voce durante tutto questo.
Dichiarazione giurata rilasciata da Abu Hussain Saad Faleh, detenuto numero 18470, il 16 gennaio 2004. Il terzo giorno, dopo le 5, arrivò Mr Grainer e mi portò nella stanza numero 37, le docce, e cominciò a maltrattarmi. Poi portò una scatola di cibo e mi obbligò a salirvi in piedi senza vestiti ad eccezione di una coperta. Poi arrivò un soldato alto e nero che mise fili elettrici alle mie dita ed alle dita dei piedi e sul mio pene ed un sacco in testa. Diceva: «Qual è l’interruttore giusto per l’elettricità?». Prese un megafono e cominciò ad urlarmi all’orecchio, poi prese una macchina fotografica e mi scattò delle foto, cosa che ho capito dal rumore del flash della macchina. Mi tolse il cappuccio e descrisse alcune pose in cui voleva che mi mettessi ma ero stanco e caddi. Ed ecco che arrivò Mr Grainer che mi obbligò ad alzarmi su di una sedia ed a tenere in mano una scatola di cibo. Ero così stanco che la lasciai cadere. Cominciò ad urlarmi in inglese. Mi fece tenere in aria una sedia bianca. Poi la sedia mi cadde e Mr Joyner mi tolse il cappuccio e mi ricondusse alla mia stanza. Dormii circa un’ora, poi mi svegliai al momento dell’appello. Non riuscii a dormire poi a causa della paura.
Dichiarazione giurata rilasciata da Hussein Mohssein Mata al-Zayiadi, detenuto numero 19446, il 18 gennaio 2004. Ero in isolamento, io ed i miei amici. Siamo stati trattati male. Ci hanno tolto i vestiti, anche l’intimo, e picchiato molto duramente e ci hanno messo un cappuccio in testa. E quando gli ho detto che sono malato hanno riso di me e mi hanno picchiato. Uno di loro prese un mio amico e gli disse: «Stai lì» e mi hanno fatto inginocchiare di fronte al mio amico. Hanno detto al mio amico di masturbarsi ed anche a me mentre loro facevano fotografie. Dopo di che portarono i miei amici Naldar, Ahmed, Nori, Ahzem, Hashiem, Mustafa ed io e ci misero due sotto, due sopra di loro, due ancora sopra ed uno in cima. Ci hanno fatto delle foto ed eravamo nudi. Dopo le botte ci hanno portato alle nostre celle separate ed hanno aperto l’acqua nelle celle e ci hanno obbligato a stare a faccia in giù nell’acqua dove rimanemmo fino al mattino, nell’acqua, nudi, senza vestiti. Poi uno del turno successivo ci ha dato dei vestiti ma il turno ancora successivo ci ha tolto di notte i vestiti e ammanettato al letto.
Le guardie erano quattro. Due maschi di cui uno aveva un tatuaggio a catena sul braccio e portava gli occhiali. L’altro aveva un tatuaggio simile ad un drago sulla schiena. La donna con gli occhiali era bassa con i capelli corti. I capelli dell’altra donna erano gialli ed era mediamente alta.
R: Hussein Mohssein Mata al-Zayiadi.
D: Come ti sentivi mentre le guardie ti trattavano in questo modo?
D: Le guardie ti hanno obbligato a muoverti in terra sulle mani e sulle ginocchia?
R: Sì, ci hanno obbligato.
D: Che facevano le guardie mentre vi muovevate sulle mani e sulle ginocchia?
R: Erano seduti sulle nostre schiene come se stessero cavalcando animali.
D: Che facevano le guardie mentre eravate uno sull’altro?
R: Facevano foto e scrivevano sui nostri culi.
D: Quante volte vi hanno trattato in questo modo?
R: La prima volta appena arrivato, il secondo giorno ci hanno messo nell’acqua ed ammanettati.
D: Hai visto le guardie trattare altri carcerati in questo modo?
R: No, ma ho sentito urla provenire da altre sezioni.
Dichiarazione giurata rilasciata da Azad Hamza Hanfosh, detenuto numero 152529, il 17 gennaio 2004. Il 5 novembre 2003 quando le truppe statunitensi mi trasferirono all’isolamento, mentre mi facevano scendere dalla macchina un soldato americano mi colpì in faccia con la mano. Poi mi spogliarono nudo e mi misero sotto l’acqua mentre lui mi faceva strisciare nel corridoio finché ho cominciato a sanguinare dal torace, dalle ginocchia e dalle mani. Dopo di che mi portò in cella ed un’ora dopo mi fece uscire dalla cella una seconda volta e mi condusse alle docce sotto acqua gelida, poi mi costrinse a salire nudo su di una scatola e mi colpì sulle mie parti intime. Non so con cosa, poi caddi a terra. Mi ha fatto strisciare per terra. Poi mi ha fatto rimanere nudo con le mani legate nella mia cella fino al mattino, quando Joyner arrivò e mi liberò le mani e mi riportò nella mia stanza ridandomi i miei vestiti. Circa due giorni dopo venne il momento del mio interrogatorio e quando finì un soldato bianco che portava gli occhiali mi prese dalla stanza in cui ero. Mi afferrò la testa e la picchiò contro il muro e poi legò al letto le mie mani fino a mezzogiorno del giorno seguente e poi due giorni dopo lo stesso soldato si prese tutti i miei vestiti e il mio materasso e non mi diede nulla in cambio per dormire ad eccezione della mia tuta per tre giorni. Poi tornò Joyner che mi diede per la seconda volta una coperta e i miei vestiti.
Dichiarazione giurata rilasciata da Thaar Salman Dawod, detenuto numero 150427, il 17 gennaio 2004. Sono andato nella cella d’isolamento il 10 settembre 2003. Sono stato lì per 67 giorni di sofferenze, con poco cibo e ho visto io stesso la tortura. Quando ho chiesto alla guardia Joiner l’orario, lui mi ha ammanettato alla porta, dopo quando il suo lavoro era finito è venuta la seconda guardia, il suo nome è Grainer, mi ha liberato le mani dalla porta e me le ha legate dietro la schiena. Poi gli ho detto che non avevo fatto nulla per essere maltrattato in quel modo e quando ho detto questo lui mi ha colpito forte al petto e mi ha legato alla finestra della stanza per circa 5 ore e non mi ha dato cibo quel giorno e sono stato senza cibo per 24 ore. Ho visto molte persone rimanere nude per alcuni giorni, essere maltrattate nel primo giorno del Ramadan. Sono venuti con due ragazzi nudi ed erano ammanettati insieme faccia a faccia e Grainer li picchiava e un gruppo di guardie li guardava e faceva foto da sopra e da sotto e c’erano tre soldatesse che ridevano dei prigionieri. Due dei prigionieri erano giovani. Non so i loro nomi.
Dal Rapporto del Comitato Internazionale della Croce Rossa del febbraio 2004. In un caso esemplare, una persona privata della sua libertà, arrestata a casa propria dalle forze della Coalizione in quanto sospettata di essere coinvolta in un attacco contro le forze della Coalizione stesse, era stata presumibilmente picchiata durante l’interrogatorio in una località nelle vicinanze di Camp Cropper. L’uomo ha dichiarato di essere stato incappucciato, di essere stato ammanettato con le manette flessibili di plastica, di essere stato costretto ad aprire la bocca nella quale gli è stata incastrata una palla da baseball che è stata fissata con una sciarpa, e di essere stato privato del sonno per quattro giorni consecutivi. Durante l’interrogatorio l’uomo sarebbe stato maltrattato e quando ha detto che se ne sarebbe lamentato con il Cicr [Comitato internazionale della Croce Rossa,] è stato picchiato ancora più forte. La visita medica effettuata su di lui da un medico del Cicr ha evidenziato degli ematomi alla parte inferiore della schiena, nel sangue nelle urine, la perdita di sensibilità della mano destra per le manette troppo strette e una costola rotta.
Dalla lettera inviata da Shafiq Rasul e Asif Iqbal, cittadini britannici rilasciati da Guantanamo l’8 marzo 2004, alla commissione Servizi militari del Senato degli Stati Uniti il 13 maggio 2004 (3). A Kandahar, venivamo interrogati da soldati statunitensi sulle ginocchia, in catene con le pistole puntate alla testa, e venivamo presi a calci e picchiati. Ci hanno messo il «tre pezzi» fatto di una cintura con una catena di ferro fino alla gamba e catene per le mani legate. Prima di imbarcarci sull’aereo per Guantanamo ci hanno messo dei paraorecchie, degli occhiali di protezione verniciati dal di fuori e maschere chirurgiche così che eravamo completamente disorientati. Sull’aereo ci hanno incatenato al pavimento senza accesso al bagno per tutte le 22 ore di volo.
Anche i nostri interrogatori a Guantanamo erano condotti con noi incatenati al pavimento per ore e ore, così a lungo che era normale che le sedie di plastica degli inquirenti venissero bagnate poiché i prigionieri erano costretti a urinare durante gli interrogatori e non era loro consentito andare in bagno. Una pratica che è stata introdotta specificamente sotto il regime del generale Miller era la «short shackling» [«incatenamento corto»] in cui noi eravamo costretti a sederci senza sedia con le mani incatenate tra le gambe e incatenati al pavimento. Se fossimo caduti, le catene ci avrebbero tagliato le mani. Venivamo lasciati in questa posizione per ore prima di un interrogatorio, durante gli interrogatori (che potevano durare anche 12 ore) e qualche volta per ore dopo che l’inquirente era andato via. L’aria condizionata era programmata talmente alta che in alcuni minuti gelavamo. C’erano luci stroboscopiche e musica talmente forte che costituivano da sole una forma di tortura. Qualche volta venivano portati dei cani per spaventarci.
Non venivamo nutriti per tutto il tempo che stavamo lì, e quando tornavamo nelle nostre celle, non venivamo nutriti per quel giorno.
Dobbiamo far notare che c’erano e senza dubbio ci sono ancora telecamere ovunque nelle aree degli interrogatori. Sappiamo che ciò che potrebbe contraddire ciò che viene detto ufficialmente esiste. Sappiamo che telecamere a circuito chiuso, video e fotografie esistono dal momento che siamo stati regolarmente filmati e fotografati durante gli interrogatori e anche in altri momenti.
Hanno registrato gli interrogatori in cui noi siamo condotti a fare false confessioni: insistevano che noi fossimo gli altri uomini in un video, che ci mostravano, dell’agosto del 2000 con Osama bin Laden e Mohamed Atta, ma noi eravamo in Inghilterra in quel periodo. Dopo tre mesi di isolamento sotto dure condizioni e ripetuti interrogatori, alla fine abbiamo acconsentito a confessare. Lo scorso settembre un agente dell’MI5 [servizio segreto britannico] venne a Guantanamo con documentazione evidente che provava che noi non eravamo in Afghanistan nel momento in cui il video è stato fatto. Alla fine siamo riusciti a provare il nostro alibi, ma siamo preoccupati per le persone di quei paesi in cui i documenti non sono disponibili.
Soldati ci hanno detto personalmente che andavano nelle celle e davano bastonate con spranghe di metallo di cui poi non relazionavano. I soldati ci dicevano: «Noi possiamo fare tutto quello che vogliamo». Noi stessi abbiamo assistito a brutali assalti ai prigionieri. Uno, nell’aprile del 2002, avvenne nei confronti di Jummah Al-Dousari dal Bahrein, un uomo che è rimasto con disturbi mentali: stava sdraiato sul pavimento della gabbia immediatamente attaccata alla nostra quando un gruppo di otto o nove guardie conosciute come Squadra Erf (Estreme reaction force) sono entrati nella sua gabbia. Li abbiamo visti attaccarlo brutalmente. Lo hanno pestato sul collo, lo hanno preso a calci nello stomaco nonostante egli avesse lì delle parti in metallo come risultato di un’operazione, gli alzavano la testa e gli sbattevano la faccia a terra. Ad un ufficiale donna era stato ordinato di andare nella sua cella e prenderlo a calci e picchiarlo allo stomaco, cosa che lei ha fatto. Questo è conosciuto come «Erf». Un altro detenuto dallo Yemen, fu colpito talmente forte che abbiamo saputo essere ancora in ospedale 18 mesi dopo. È stato detto che ha tentato il suicidio. Non è questo il caso.
Desideriamo chiarire che tutti questi e gli altri episodi e tutta la brutalità, l’umiliazione e la degradazione avevano chiaramente luogo come risultati di politiche e ordini ufficiali.
Sotto il regime del generale Miller, era una pratica regolare per i detenuti avere i capelli e la barba rasati. Ci veniva detto che era perché avevamo fallito nel cooperare negli interrogatori. […] Tutto questo veniva filmato mentre accadeva. Siamo venuti a conoscenza che anche di fronte a rappresentanti della Croce Rossa che sono stati testimoni personalmente almeno di una di queste cose, l’amministrazione del campo ha negato alla Croce Rossa che queste pratiche esistevano.
Qualche volta i detenuti venivano portati nella stanza degli interrogatori giorno dopo giorno e venivano sottoposti alla «short-shackling» senza che nessun interrogatorio avesse luogo, perfino per settimane. Abbiamo sentito racconti angoscianti fatti da altri detenuti che venivano portati nella stanza degli interrogatori, lasciati nudi e incatenati a terra, di donne che venivano portate dentro la stanza e che li provocavano inopportunamente e anzi li molestavano. Era completamente chiaro a tutti i detenuti che questo accadeva a prigionieri particolarmente vulnerabili, specialmente a chi aveva una rigida formazione islamica.
Poco prima che noi andassimo via iniziò una nuova pratica. Le persone venivano portate in quello che era chiamato il blocco «Romeo», dove venivano spogliate completamente. Dopo tre giorni venivano date loro delle mutande. Dopo altri tre giorni veniva data loro una maglia, e ancora dopo altri tre giorni i pantaloni. Alcuni ebbero solo le mutande. Tutto questo, dicevano, per essersi comportati male. (Punizione costantemente imposta dentro Guantanamo, giustificata con l’infrazione di una qualunque «regola», incluso, per esempio, avere due tazze di plastica nella tua gabbia quando ti era consentito averne solo una o avere un rosario per la preghiera in più o troppa carta igienica o sale in eccesso). Per quanto riguarda il lasciare i detenuti nudi, è a nostra conoscenza che la Croce Rossa ha protestato a riguardo con il colonnello e poi con il generale e ancora con l’amministrazione statunitense. […]
Dal rapporto di Amnesty International «Undermining security: violations of human dignity, the rule of law and the National Security Strategy in “war on terror” detentions», del 9 aprile 2004. Mohammed Ismail Agha era un «ragazzo di villaggio tredicenne magro e ignorante» quando è stato preso sotto la custodia americana in Afghanistan alla fine del 2002 e portato alla base aerea di Bagram per sei settimane. Non è mai stato considerato una «minaccia per gli Stati Uniti» e di conseguenza è stato trattenuto senza imputazione né processo per più di un anno, anche nella baia di Guantanamo. È stato rilasciato in Afghanistan a fine gennaio 2004 assieme ad altri due bambini detenuti, al seguito di una dichiarazione ufficiale che affermava che essi «non costituiscono più una minaccia per la nostra nazione», senza spiegare come dei bambini potessero minacciare la sicurezza di uno dei paesi più potenti della Terra.
Mohammed Ismail Agha ha affermato che è stato portato in cella di isolamento a Bagram e sottoposto a quelle che sono diventate note come «tecniche di stress e costrizione». Ha detto: «Mi interrogavano ogni giorno e nei primi tre o quattro giorni mi davano pochissimo cibo. E mi maltrattavano». Ha detto di essere stato costretto a sedersi sulle natiche per tre o quattro ore per volta anche quando voleva dormire. Ha detto: «Era veramente un brutto posto. Ogni volta che mi addormentavo, loro prendevano a calci la porta e mi urlavano per farmi svegliare. Quando tentavano di farmi confessare, mi facevano stare in piedi, con le ginocchia piegate per una o due ore. Qualche volta non ce la facevo più e cadevo, ma loro mi facevano rimettere in piedi di nuovo.
Wazir Mohammad, un tassista afgano, è stato rilasciato da Guantanamo nel novembre 2003 e ha parlato con Amnesty International a Kabul alla fine di febbraio 2004. Durante l’intervista ha ricordato la sua detenzione sotto la custodia statunitense in Afghanistan ad aprile e maggio 2002 prima di essere trasferito a Guantanamo. Ha detto di essere stato tenuto in una cella da solo nella base aerea di Bagram per 45 giorni, incatenato e ammanettato per la prima settimana. Ricorda la luce accesa 24 ore su 24 nell’area di detenzione e che i militari stessi tenevano i detenuti svegli la notte sbattendo una stecca di metallo per fare un forte rumore. È stato interrogato una volta per circa un’ora. Ogni giorno per 45 giorni gli è stato detto che sarebbe stato rilasciato. Wazir Mohammad invece non è stato rilasciato ma trasferito da Bagram alla base aerea di Kandahar. Ha detto che durante il trasferimento è stato incappucciato e ammanettato e che le manette erano talmente strette che gli hanno interrotto il flusso sanguigno alle mani. A Kandahar è stato interrogato di nuovo per circa un’ora. Ha detto che è stato costretto a trascinarsi sulle ginocchia dalla sua cella alla stanza degli interrogatori, e si è trascinato così per dieci minuti.
Durante la sua permanenza a Bagram e Kandahar, Wazir Mohammad è stato tenuto in isolamento. Non aveva alcuna opportunità di impugnare la legittimità di questa detenzione. Non aveva nessun avvocato, nessun contatto con la sua famiglia, non era stato portato davanti a nessuna corte, incluso il «tribunale competente» previsto dalla Convenzione di Ginevra per determinare lo stato di un prigioniero in tempo di guerra. Così come non ha mai incontrato un delegato del Comitato internazionale della Croce Rossa. È stato poi messo sull’aereo per Guantanamo. Ha detto di essere stato incappucciato e ammanettato per tutte le 22 ore di volo. Quando gli è stato chiesto circa la possibilità di andare in bagno, ha rifiutato di rispondere dicendo che non poteva parlare di alcune cose che sono successe sull’aereo. All’arrivo a Guantanamo, Wazir Mohammad ha detto che lui e gli altri detenuti che erano con lui sono stati tirati fuori dall’aereo «come fossero merce, non persone». […]
Dal rapporto di Amnesty International «Usa: The threat of a bad example – Undermining international standards as “war on terror” detentions continue», del 19 agosto 2003. «Ma che giustizia è questa? Prendere una persona innocente per 13 mesi, prendere qualcuno dalla strada e incarcerarlo senza prove, senza una opportuna indagine. È questa la loro legge?». […] Sayed Abassin ha trascorso più di un anno in custodia americana senza accusa né processo, prima in Afghanistan e poi a Guantanamo Bay, apparentemente per la sola ragione che in un giorno di aprile del 2002 si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Questo tassista afghano ventottenne era in viaggio da Kabul a Khost nell’aprile 2002. A Gardez il suo taxi è stato fermato ad un checkpoint da uomini che dicevano che uno dei suoi passeggeri era il cugino di un potente della regione. […] Egli è stato arrestato nonostante avesse spiegato che era solo un tassista e non conosceva i passeggeri. È stato portato alla stazione di polizia di Gardez dove ha detto di essere stato picchiato prima di essere consegnato alla custodia dei militari americani. Gli hanno fatto qualche domanda e poi è stato trasferito in elicottero alla base aerea di Bagram. […]
Lì Sayed Abassin dice di essere stato ammanettato e incatenato per la prima settimana, tenuto alla luce 24 ore al giorno e svegliato dalle guardie quando tentava di dormire, interrogato sei o sette volte, [dice che] non ha ricevuto sufficiente cibo, non gli era permesso di parlare né di guardare altri detenuti ed era costretto a stare in piedi o in ginocchio per ore. Ricorda anche il suo trasferimento nella base americana di Kandahar – trattato rudemente, con le orecchie coperte, un sacco nero sulla testa e chiuso attorno al collo, con le mani e le gambe legate. Afferma che ai detenuti a Kandahar non era consentito guardare in faccia i soldati. Se lo facevano, venivano fatti stare in ginocchio per un’ora. Se lo ripetevano una seconda volta, li facevano stare in ginocchio due ore. Dice di essere stato interrogato cinque o sei volte a Kandahar. Durante tutto il tempo in cui è stato in custodia americana, Sayed Abassin non ha avuto accesso ad un avvocato, ad una corte, né ad un «tribunale competente» previsto dalla Terza Convenzione di Ginevra. Probabilmente se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe stato rilasciato. E invece è stato trasferito a Guantanamo Bay, dove la negazione di qualunque procedimento legale è continuata per il successivo anno.
Ha raccontato ad Amnesty di essere stato interrogato dieci volte o anche di più nelle prime settimane dopo il suo arrivo a Camp Delta, e di essere poi restato lì per altri dieci mesi senza nessun altro interrogatorio prima di essere rilasciato. Sayed Abassin è stato rilasciato da Guantanamo nell’aprile 2003 e riportato in Afghanistan. Gli è stato fatto firmare un accordo [in cui affermava] di non avere alcun legame con i talebani o con al-Qaida e di non fare nulla che potrebbe danneggiare l’America, nonostante l’apparente assenza di qualunque prova che egli avesse simili legami. Conoscenti di Sayed Abassin a Kabul dopo il suo ritorno in Afghanistan hanno detto: «Lui è semplicemente un tassista [che era] nel posto sbagliato al momento sbagliato. […] I tassisti non dovrebbero essere portati a Guantanamo, dovrebbero essere interrogati qui, o attraverso il governo afghano. […] Non li metti in prigione e li tieni lontani per un anno. Non ha potuto sostenere la sua famiglia e adesso ha bisogno di soldi. Gli americani dovrebbero risarcirlo per tutto ciò che ha perso». Gli americani affermano che sono detenuti a Guantanamo i cosiddetti combattenti nemici. […] Come ha fatto Sayed Abassin a finire in questa categoria? E quanti ancora come lui sono a Guantanamo? Sayed Abassin stesso afferma che ce n’è almeno un altro. Il suo migliore amico, Wazir Mohammad [vedi testimonianze precedenti], anche lui tassista, di circa trent’anni, è stato arrestato a Gardez dopo che era andato al checkpoint a chiedere dove fosse Abassin. Anch’egli è stato arrestato al checkpoint dalle guardie afghane, consegnato alla custodia americana e successivamente spedito a Camp Delta, dove è rimasto più di anno dopo, senza imputazioni, senza processo, e senza avvocato. […] Sayed Abassin ha raccontato ad Amnesty International che lo facevano stare in ginocchio per ore ed era anche soggetto a deprivazione del sonno e a stare incatenato a lungo. […] Ricorda: «Sono arrivato [a Guantanamo] legato e imbavagliato […] è stato il peggior giorno della mia vita». Afferma che non gli è stato detto perché veniva trasferito né dove venisse portato. […] [Racconta che] secondo lui la deprivazione del sonno era il risultato del regime lì, a causa dell’illuminazione 24 ore su 24 e [del fatto che] le guardie non gli consentivano di coprirsi la testa con una coperta per agevolare il sonno. Afferma che ha avuto problemi di vista al ritorno; […] afferma anche di essere stato messo in una cella di punizione per cinque giorni per aver fatto dell’esercizio fisico nella sua cella.
Un uomo intervistato da Amnesty International nella provincia di Kandahar in Afghanistan ricorda come egli fosse uno dei 34 membri dell’esercito afghano presi in custodia dalle forze americane il 17 marzo 2002. Abdullah afferma che vennero legate le mani degli uomini dietro la schiena con manette di plastica e portati nella base americana di Kandahar. Lì – afferma – sono stati allineati e gli è stato ordinato di stare distesi sulla ghiaia, dove sono rimasti per diverse ore. Ha detto che durante questo tempo, ha ricevuto dei calci nelle costole. Dice che tutti avevano dei cappucci sulla testa e sono stati minuziosamente annusati da dei cani; gli uomini sono stati rasati sia in viso che sul corpo. Abdullah dice di essere stato rasato da una donna. Afferma che mentre lo interrogavano era ammanettato, con i piedi legati e un cappuccio in testa.
In un’intervista del 30 luglio 2003, Alif Khan, di nazionalità afghana, ha raccontato ad Amnesty International di essere stato in custodia americana nella base aerea di Bagram per cinque giorni nel maggio 2002. Ha detto di essere stato ammanettato, incatenato alla cintola e con le gambe incatenate per tutto il tempo, soggetto a deprivazione del sonno, senza acqua per la preghiera e le abluzioni e interrogato una o due volte al giorno. È stato messo in una struttura simile ad una cella con otto persone, non era concesso parlare tra i detenuti. Alif Khan ha detto di essere stato trasferito nella base aerea di Kandahar dove è rimasto per 25 giorni. Di nuovo è stato tenuto in manette e catene alle gambe e alla cintola, per la maggior parte del tempo. […] Ha aggiunto che è stato sottoposto a quotidiane perquisizioni intime […] [e che] gli sono state fatte due iniezioni, una in ogni braccio, per il suo trasferimento a Cuba nel giugno 2002. Dice di non sapere cosa fosse, ma riferisce che gli hanno provocato «una sorta di incoscienza».
Due ex detenuti a Bagram […] hanno affermato che venivano fatti stare nudi, incappucciati e incatenati e tenuti in piedi per ore. Uno di loro ha trascorso 16 giorni nella sezione interrogatori del complesso, stando in piedi per dieci ore finché le sue gambe sono diventate talmente gonfie che le catene gli hanno tagliato le caviglie riducendo gravemente il flusso sanguigno. Lui e altri dicono che le guardie li prendevano a calci e urlavano per tenerli svegli mentre stavano in piedi o durante gli interrogatori.
[…] Mohammad Taher ha raccontato ad Amnesty International nel maggio 2003, che ha avuto problemi mentali a causa della sua detenzione e che aveva difficoltà a ricordare le cose. Ha trascorso due mesi e mezzo nella base aerea di Kandahar prima di essere trasferito a Guantanamo, dove pensa di essere stato per circa otto-dieci mesi. […] Racconta che anche se lui non è mai stato portato in una cella di punizione, altri vi erano portati per 20 giorni, per esempio per aver rifiutato del cibo. Crede che le celle di punizione offrissero pessime condizioni. Secondo quanto riferito, le celle di isolamento erano della stessa misura delle altre ma con pareti compatte [al posto delle sbarre delle altre «gabbie»] e porte e una piccola finestra.
(cura e traduzione di Cinzia Sciuto)
(1) Le date in corsivo rimandano alle corrispondenti date nella cronologia.
(2) Tutti i documenti e le fonti utilizzati nel testo sono elencati alla fine della cronologia.
(3) Tutti i corsivi nelle citazioni sono miei.
(4) Sul sito della «Bill of Rights Committee» si trova una buona selezione di articoli che testimonia l’intenso dibattito, www.bordc.org/articles.htm#dojreport.
(5) Le udienze preliminari dei primi processi si svolgeranno il 24 agosto 2004 (vedi 3 luglio 2002).
(6) New York Review of Books, 28-2-2002.
(7) Vedi il Rapporto di Amnesty del 19 agosto 2003 e la testimonianza di Sayed Abassin che pubblichiamo qui a pagina 296.
(8) Sul sito www.cageprisoners.com è disponibile un rapporto del 13 maggio 2004 in cui sono elencati per paese tutti i detenuti che si è riusciti a identificare.
(9) Vedi soprattutto il rapporto di Amnesty del 19 agosto 2003. Su http://web.amnesty.org/pages/guantanamobay-reports-eng si trova un elenco completo di tutti i rapporti di Amnesty International che riguardano Guantanamo.
(10) http://www.unhchr.ch/huricane/huricane.nsf/newsroom.
(11) Amnesty International, Abu Ghraib e dintorni. Un anno di denunce inascoltate sulle torture in Iraq, Ega Editore, Torino 2004, p. 13.
(12) Vedi http://untreaty.un.org/ENGLISH/bible/englishinternetbible/partI/chapterXVIII/treaty10.asp#N6.
(13) Dichiarazioni disponibili su www.defenselink.mil/speeches/2004/sp20040507-secdef0443.html.
(15) http://hrw.org/press/2003/06/letter-to-leahy.pdf.
(16) Quando non altrimenti specificato le dichiarazioni di Bush si trovano sul sito www.whitehouse.gov, quelle di Rumsfeld sul sito www.defenselink.mil.
(17) Abu Ghraib e dintorni, cit., p 13.
(18) Abu Ghraib e dintorni, cit., p 13.
(19) Disponibile su http://www.cageprisoners.com/dn_files/200408041051220.pdf.
(20) Testo su www.usembassy.it/file2004_05/alia/a4051407ir.htm.
(1) Si ha la sensazione che questa ultima parte della testimonianza, che pare ritrattare alcune cose dette prima e smentire le altre testimonianze, sia stata in qualche modo pilotata dalle pressioni degli inquirenti.
(2) Si è tentati di supporre che l’espressione «Important point» sia stata aggiunta dagli inquirenti, anche se il testo non è esplicito al proposito. L’ultima parte della dichiarazione, inoltre, sembra una forzatura, se raffrontata a quanto detto prima, forse dovuta anche in questo caso alle pressioni degli inquirenti.
(3) La lettera originale è disponibile sul sito del Center for Constitutional Rights, http://www.ccr-ny.org/v2/home.asp.
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