La sedia bianca in plastica dura, dai braccioli pronunciati e dallo schienale accogliente, impilabile e monoblocco, è un oggetto tanto neutro quanto ampiamente diffuso. Presente nei bar di periferia, nei cortili delle scuole e in diversi luoghi di aggregazione, è prodotto in numerose varianti da migliaia di produttori. La sua presenza su larga scala, deriva dal fatto che il progetto originale non sia mai stato brevettato, nessuno infatti sa chi sia il suo ideatore. Pierre Castignola (1995), giovane designer olandese laureato alla Design Academy di Eindhoven, sceglie proprio questa sedia senza proprietà intellettuale come oggetto di studio, diventando la protagonista del suo progetto Copytopia. Attraverso un processo creativo, fatto di tagli e di scomposizioni, l’artista riassembla tra loro parti di sedie con forme diverse, creando un oggetto di design unico e dall’aspetto cubista.
Pierre Castignola ragiona sul principio del copyright ed esamina il difficile rapporto tra la legge sui brevetti e la libertà di creare. Secondo il designer, i creativi sono limitati dal diritto d’autore, per la maggior parte di proprietà delle grandi aziende, reclamando così la libertà degli artisti. Selezionando anche altri oggetti di uso quotidiano e inserendoli nei propri progetti, Castignola idea design critici che uniscono la quotidianità alla ricerca.
L’attenzione che Pierre riserva alla semiotica e alla simbologia è resa esplicita nella scelta della sedia in plastica, che suscita nel pubblico una sensazione nostalgica, colpendo il nostro bacino di ricordi. Lo spettatore riconosce immediatamente la forma e la interpreta facilmente grazie alla vicinanza emotiva che l’oggetto evoca. Tra i diversi ricordi, non può mancare quello della sedia scheggiata o senza una gamba, rotta o crepata che, senza esitare, veniva buttata per poi essere sostituita. L’aspetto precario e fragile è posto in luce da Castignola, che realizza i suoi pezzi attraverso l’uso di elementi che appaiono come rotti, poi uniti tra loro da grosse viti. Le opere assumono una forma quasi robotica, meccanica, che proietta l’archetipo moderno nel futuro. In questo modo, il designer olandese riesce ad attivare l’attenzione sul consumismo e sulle sue conseguenze, sottolineando la necessità di avvicinarsi alle pratiche di riuso che, attraverso l’arte e la creatività, possono assumere sfumature stimolanti.
Tra meno di un mese, il 14 aprile 2023, a Londra inaugurerà l’annuale mostra di fotografia Sony World Photography Awards, giunta alla sua 16° edizione. Il progetto nasce da una collaborazione tra Sony e World Photography Organisation con l’obiettivo di celebrare i migliori fotografi provenienti da tutto il mondo, dagli emergenti ai professionisti. In attesa dell’inaugurazione che si terrà da Somerset House, SWPA annuncia i vincitori della categoria Open Competition, che concorreranno per aggiudicarsi il premio di Open Photographer of the Year 2023 e i cinque mila dollari in palio. I giudici del concorso Open hanno ricevuto più di 200 mila immagini, il più alto numero di iscrizioni ricevute in sedici anni. Tra i numerosi scatti ne sono stati selezionati dieci, uno per ogni categoria stabilita. Natura e fauna selvatica, Ritrattistica, Street photography, Travel, Architettura, Lifestyle, Motion, Object, Natura morta, Paesaggio e Creatività sono i temi affrontati quest’anno. Non dev’essere stata una scelta facile per i giudici e in particolare per Eric Scholsser, direttore artistica della Tbilisi Art Fair, giudice della competizione Open. Il risultato delle difficili scelte prese è la presenza di una varietà di stili, di luoghi e di colori che caratterizza ogni fotografia.
Tra i nomi internazionali in concorso c’è Giorgos Rousopoulous, che vince il premio per il miglior paesaggio, trasportando lo spettatore in Grecia, più esattamente nel Parco Nazionale di Pindus. Il miglior scatto Lifestyle di Azim Khan Ronnie mostra invece dei bambini di un villaggio in Bangladesh, ritratti in un momento di spensieratezza. Il premio per la categoria Architettura è vinto invece dal fotografo inglese Mark Benham con lo scatto The Silos, dai colori caldi e l’atmosfera metafisica. Sono quattro gli scatti in bianco e nero che si aggiudicano i premi di categoria: Max Vere-Hodge con Ghosts (Viaggi), Dinorah Graue Obscura con Mighty Pair (Natura e fauna selvatica), Boris Eldagsen con Pseudomnesia (Creatività) e Andreas Mikonauschke con lo scatto Exhausted per la categoria Street Photography. Il bianco e nero si riconferma autentico e ribadisce che “una buona immagine non ha bisogno di colore”. Sono invece preponderanti e brillanti i colori dello scatto vincitore della categoria Motion, aggiudicatosi da Zhenhuan Zhou, in cui il fotografo ritrae una cowgirl in sella a un cavallo in corsa, intento a frenare bruscamente per affrontare la curva. Dall’armonia cromatica sulla scala dei marroni è il ritratto di Charlie realizzato da Sughi Hullait (Ritratti) che racconta la storia di un gruppo di ragazzi inglesi che durante la pandemia costruirono uno skate park fai da te. Il tema del riciclo e del rispetto ambientale è affrontato da Mieke Douglas nello scatto Recycled, vincitore della categoria Oggetto. Il suo scatto fluttuante ed etereo raffigura dei fiori fatti di carta e nastri che probabilmente galleggiano negli abissi, mettendo in luce una tematica delicata e attuale. Il vincitore assoluto di questo concorso verrà annunciato il 13 aprile 2023 e darà il via alla mostra fotografica dell’anno, visitabile fino al primo maggio.
Nelle fotografie di Miloš Nejezchleb (1978) nulla si muove, tutto è immobile e statuario. Il fotografo ceco, vincitore di numerosi premi tra cui il Fine art Photographer of the year 2021, ha un approccio fotografico concettuale e narrativo. I protagonisti sono spesso gruppi di persone, ritratti come manichini e tutti nella stessa posa rigida, come se fossero parte di una coreografia sincronizzata. Nella maggior parte dei casi i volti non sono visibili, privando i soggetti di una personalità e di caratteristiche specifiche. Questa scelta trasforma i corpi in sola materia, con l’unica funzione di comunicare attraverso le pose che Miloš decide di fargli assumere. Miloš Nejezchleb realizza infatti diversi scatti degli stessi soggetti, facendo loro cambiare posizione e creando così una narrazione in serie. Attraverso le fotografie, Miloš affronta argomenti sociali attuali e racconta storie personali ed emotive. Ne è un esempio la serie Stronger in cui Miloš mostra la rinascita della protagonista, a seguito di un momento di intenso dolore: le due versioni della stessa persona sono ritratte nell’atto di guardarsi negli occhi, scoprendosi e ricordandosi.
Se da una parte la staticità degli scatti risulti asettica, dall’altra accentua la drammaticità del silenzio e colloca lo spettatore in un preciso momento sospeso nel tempo. I colori brillanti bilanciano la sensazione di inquietudine, donando un aspetto pop alle opere. L’estetica e l’armonia è ricercata quasi maniacalmente da Miloš, che cura ogni dettaglio in prima persona: dalla scenografia allo styling, dalla scelta dei luoghi alla post produzione.
Miloš Nejezchleb è stato recentemente ospite della mostra collettiva ImageNation a New York, dal 10 al 12 marzo 2023 a cura di Martin Vegas.
Il 21 marzo, in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, dialogica vuole indagare la capacità delle immagini di contribuire, attraverso un’azione di alfabetizzazione visuale interculturale, all’abbattimento dei preconcetti legati ai fenomeni della migrazione o della diversità culturale. Da quando a cavallo degli anni ’60 e ’70 Gordon Parks ha iniziato a raccontare con dignità e sensibilità la povertà, l’ingiustizia sociale e l’emarginazione vissute dagli afroamericani negli Stati Uniti, una nuova modalità narrativa ha affiancato il fotogiornalismo d’assalto, contribuendo a delineare una nuova iconografia capace di restituire una visione de-colonizzata, più realistica e meno stereotipata della figura del migrante o, più in generale, delle comunità nere. All’approccio puramente documentaristico le nuove generazioni di autori che lavorano con le immagini preferiscono un’indagine che si focalizzi più sul territorio in cui vivono, ricorrendo a linguaggi più ricercati o che approfondiscono le implicazioni sociali del fenomeno della migrazione.
Il lavoro “Nowhere Near” dell’autrice Alisa Martynova si concentra proprio sulla necessità di restituire un’identità peculiare all’erroneamente monolitica visione del migrante. Alisa ricorre a metafore e similitudini per raccontare le testimonianze di giovani migranti, intervistati in Italia (e non solo) nell’arco di oltre tre anni. I gruppi di migranti, protagonisti di viaggi estenuanti, vengono metaforicamente paragonati a costellazioni di stelle fuggitive, ovvero corpi celesti intrappolati sul confine dei buchi neri, una sorta di limbo da cui possono sottrarsi sono grazie a uno scontro tra due buchi neri: un evento eccezionale che proietta le stelle lontane da un equilibrio precario per raggiungere destinazioni non note.
Così, il Sogno di una vita migliore, del raggiungimento di un Eldorado a lungo immaginato, ma mai realmente visualizzato, viene poeticamente reso attraverso scatti realizzati in notturna in cui la luce svela per qualche secondo ciò che è nascosto, mostrando tessuti e vestiti iconograficamente legati alla cultura afro/orientale, ma catturati in luoghi altri, in cui spesso è presente quel mare attraversato coraggiosamente per raggiungere una vita migliore, o il bosco/foresta in cui nascondersi per diventare fantasmi in terra straniera.
Un cortocircuito visivo che ribadisce l’insistere di una cultura altra in un territorio sconosciuto, ma che accende una riflessione sul mondo interiore dei migranti con l’intento di suscitare reazioni in chi guarda e sottolineare l’individualità e peculiarità di ogni soggetto ritratto, portatore di storie, vissuti e racconti unici e irripetibili.
Sul pericolo di un appiattimento culturale delle comunità di colore si concentra anche il progetto “Black skin white algorithms” dell’autrice di origini angolane Alice Marcelino. Alice, il cui lavoro esplora la dimensione dell’appartenenza a partire dai concetti di cultura, tradizione, migrazione e identità, denuncia le anomalie presenti nelle tecnologie di rilevamento facciale nel momento in cui queste interagiscono con soggetti di pelle nera. Essendo principalmente programmate dall’uomo occidentale per rilevare pelle chiara, queste tecnologie non individuano in maniera ugualmente accurata le tonalità di pelle più scura, restituendo visioni sommarie o approssimative dei soggetti riconosciuti.
L’idea di inferiorità viene perpetrata quindi non solo in pregiudizi sociali inconsci, ma è alimentata anche dalle tecnologie, programmate da mani bianche occidentali, con una conseguente fornitura di potenziali false dichiarazioni. A sottolineare questo livellamento, Alice sostituisce la foto segnaletica dei soggetti con l’equivalente traduzione in codice ASCII (un set di caratteri standard compreso da tutti i computer) – che ne riduce l’identità a un risultato binario, privo di significato e complessità: la lettura del volto viene così annullata totalmente e resa illeggibile sia dall’uomo che dal sistema di riconoscimento facciale.
Da un reel di Instagram del fotografo canadese Sean Mundy si intuisce la complessità delle sue opere fotografiche. I suoi non sono solo scatti ma piuttosto si può affermare che le sue opere siano il risultato di una grande immaginazione veicolata dalla fotografia, da abilità tecniche di post produzione digitale e dalla dettagliata costruzione scenografica. Nel reel infatti, il fotografo mostra il processo di realizzazione dell’opera Summoning che raffigura una serie di corpi precipitare da un’apertura nel soffitto. I personaggi “volanti” alla Magritte sono in realtà la stessa persona: il fotografo realizza molteplici autoscatti mentre si lancia su un materasso, simulando la caduta, per poi lavorarli digitalmente e creare la composizione. Il risultato è un lavoro concettuale e sorprendente, in cui l’armonia visiva accentua e veicola messaggi sociali, con un focus particolare sulle dinamiche di comportamento collettivo.
Ricorrente nelle opere di Sean Mundy è la figura di un uomo incappucciato di cui non è visibile il volto. L’abbigliamento total black che indossa lo rende una figura misteriosa, inquietante e tenebrosa, come se fosse un’ombra senz’anima. Molto spesso il personaggio in nero appare in maniera ripetuta nella stessa opera, creando un gruppo unito somigliante ad una setta, intento in azioni a tratti macabre. In alcune opere il gruppo è messo in opposizione ad un singolo, come nell’opera Elude del 2014, in cui le figure in nero inseguono un uomo in fuga, che si differenzia per l’abbigliamento da uomo comune, in jeans e t-shirt. In altre opere invece vengono eseguiti comportamenti rituali, ne è un esempio l’opera Idolatry che mostra il gruppo inginocchiato davanti ad un enorme cubo nero sospeso nell’aria. Questa serie di opere è un chiaro riferimento ai comportamenti sociali in cui il singolo non possiede una propria identità personale ma piuttosto emerge un’identità collettiva che spinge il singolo ad uniformarsi alla massa, sia dal punto di vista ideologico che estetico. In altre serie il protagonista, solo o in gruppo, è messo in relazione ad elementi che dominano la composizione come il fuoco nella serie Barriers, paesaggi urbani distrutti in RUIN e teli rossi in Tethered, la serie più recente di Sean Mundy. L’intento rimane sempre quello di comunicare problematiche attuali, legate in particolar modo ai meccanismi psicologici umani indotti dall’esterno ma con evidenti ripercussioni intime.
Collater.al è un Web Magazine dedicato alla cultura creativa contemporanea e uno Studio Creativo specializzato in consulenza, creative direction e produzione di contenuti.