La saga di Capcom alimenta una paura superficiale ed epidermica verso improbabili mostri, almeno finché non realizziamo di avere finito i proiettili o che c’è un virus letale che ci chiude in casa per mesi. È l'esilarante tunnel dell’orrore di cui abbiamo bisogno
Un fan del gioco in posa per una foto in uno stand "Resident Evil 2" durante l'Electronic Entertainment Expo E3 al Los Angeles Convention Center, il 12 giugno 2018.
Foto di Christian Petersen/Getty Images
Comincia sempre con una porta che si apre. Non importa qualsiasi cosa sia raccontata prima dello spalancarsi di quell’uscio, sia essa un filmato più o meno elaborato o un segmento interattivo.
Ogni videogioco di Resident Evil inizia davvero nel momento in cui spalanchiamo quella prima porta, un’attività che può prolungarsi in maniera variabile, durare gli innumerevoli secondi richiesti da ormai vetusti tempi di caricamento o risolversi immediatamente con la velocità di calcolo della modernità.
Il tempo è relativo, immaginato, perché nell’attimo in cui la porta si schiude intravediamo, vagheggiamo, ogni possibile orrore a venire, siamo partecipi infine dell’incubo, soli di fronte al pericolo e al mistero.
Dall’austera porta di Villa Spencer a quella di una macilenta magione nelle paludi della Louisiana, dal misero uscio di una stamberga contadina tra tetri boschi spagnoli al cancello della stazione di polizia di Raccoon City. Può esserci tutto o niente oltre quella prima porta: un atrio abbandonato, un villano invasato, una sala da pranzo dimessa con i resti un orribile pasto. Di porte in Resident Evil se ne aprono sempre molte, qualcuna necessita di una chiave speciale, tuttavia è in quella prima apertura che si rivela tutto il fascino arcano e macabro di questo universo, la sua dialettica con la nostra immaginazione, la sfida giocosa al nostro coraggio di giocatori che dimostrano la stessa sfrontata temerarietà di un bambino che sale sul vagoncino di un tunnel dell’orrore in un Luna Park, ostentando una divertita sicurezza e celando invece un’atavica paura; perché una volta cominciato il viaggio si entra nel regno dei mostri e, sebbene egli cerchi di convincersi che questi sono finti, qualcosa continua a sussurrargli dentro che forse quelle creature di plastica, proprio adesso che tocca a lui quella corsa caranascialesca, potrebbero, chissà perché, essere vere.
Sin dal suo esordio nel 1996, l’invenzione di Shinji Mikami e Tokuro Fujiwara ha proposto una modalità per giocare con la paura che è assimilabile a quella delle attrazioni horror dei Luna Park, una paura che non è la stessa esperibile con altri videogiochi horror che risultano invece disturbanti o angosciosi, una paura scherzosa che ci fa saltare senza troppa convinzione sulla sedia e al limite smuove il raccapriccio, rimovibile finché non capita di sognare di notte Nemesis che ci da la caccia, un Licker dal cranio scoperchiato che ci trafigge con la sua lunga lingua, la suocera trasformata in zombie che ci morde le caviglie e non abbiamo neanche più un proiettile. Non è nulla rispetto ai terrori esistenziali di Silent Hill o alle tragedie traumatizzanti di The Last of Us che davvero non fanno dormire; ma le mostruosità di Resident Evil qualche brivido lo lasciano scorrere sempre, pronto a dissolversi veloce, nel tempo di un sorriso imbarazzato o divertito.
Questa potenza ridotta di generare un terrore genuino non è un difetto ma un pregio di questa longeva saga di Capcom, quello di indurci a riflettere che non è “il sonno della ragione” a generare mostri perché quelli ci sono già, concreti in ogni minuto di veglia, ma è invece proprio l’irragionevolezza con cui si penetra l’altrove di ogni videogioco a contribuire all’esorcismo del mostro inteso come uomo nero, bau-bau, eredità ancestrale della nostra infanzia. La paura alimentata da Resident Evil è appunto orchestrata come quella di un tunnel dell’orrore architettato con diabolica sapienza, sappiamo e non sappiamo che è tutto finto e in questo dubbio scaturisce un innegabile, liberatorio divertimento. Non è facile sconfiggere la memoria dell’uomo nero, sebbene anche con un sorriso storto, insincero, ma comunque un sorriso, la possiamo abbattere, un pò come in Harry Potter e il “molliccio” nell’armadio.
Ma, c’è sempre un “ma” quando si parla di paura, emozione così soggettiva e mutante nel tempo (e con i tempi) e se vi è capitato di giocare il remake di Resident Evil 3 uscito durante il “lockdown” totale seguito all’avvento del COVID, se siete stati Claire chiusa nel suo appartamento mentre a Raccoon City si diffondeva letale il virus dell’Umbrella, ebbene allora sapete cosa si vuole qui intendere, così che quell’episodio fu allora assai più agghiacciante, un motore di angoscia e terrore profondi, di qualsiasi altro horror psicologico.
Che i videogiochi siano sempre più accessibili è una cosa buona e giusta, non lo erano affatto alle loro origini e nemmeno lo sono stati per molti anni, qualcuno non lo è neppure oggi. Resident Evil ha sempre avuto una selezione di modalità di gioco per trasformare l’esperienza da facile a infernale, variandola secondo il tempo e le necessità del giocatore.
Tuttavia è consigliabile, per godere appieno di questi grandiosi e spassosi “tunnel dell’orrore”, di provare sempre a esperirli nella loro forma più ostica poiché è così che si gode appieno del loro generare la convinzione, o meglio l’illusione, di uno spavento che fa leva sull’ansia e l’incertezza. Per giocare “difficile” non è necessario chissà quale virtuosismo, servono solo pazienza e desiderio, quello di mettersi alla prova in giochi che sono concepiti per essere una sfida che non è frustrante e invece tende ad educare con la perizia di un insegnante chi decide di ascoltare la sua lezione e di trarne un’educazione.
Se non si è dei campioni è inevitabile che il gioco si prolunghi (così inoltre non ci si lamenta della longevità) e il timore, quella paura spicciola ma efficace fino a risultare poetica della qual abbiamo già scritto, si amplifica a dismisura. Si “vive” nell’ansia costante di finire le risorse, munizioni o curativi che siano, si pensa e si agisce in maniera strategica e non impulsiva, le creature acquistano carisma, l’immedesimazione nel protagonista è più potente. Ne consegue un’inevitabile dolore, si precipita spesso nel nero del Game Over, si giunge a maledire la presuntuosa scelta di sfidare il gioco come esperti ma infine, con quiete e pazienza, si supera ogni difficoltà, in maniera non dissimile da quella delle opere di Hidetaka Miyazaki e From Software, da Demon’s Souls a Elden Ring. E così il successo alimenta un’ebbrezza inspiegabile a chi non pratica il videogioco, un sentimento di tripudio che è simile a quello dell’atleta quando supera se stesso o del musicista mentre domina un’ardua partitura.
Quindi se giocato nel modo più duro Resident Evil è più minaccioso e al contempo è maggiore la gratificazione che si ricava dall’esperienza, oltre che a risultare più evidente il valore del suo disegno, della sua costruzione come videogame.
Ecco perché vi suggeriamo, all’alba del lancio dello straordinario remake dello già straordinario quarto episodio (uscirà per Playstation, Xbox e PC il 27 marzo), di provare ad affrontarlo in modalità estrema. Resident Evil 4 è il “tunnel dell’orrore” esemplare di Capcom, la sua ritmica ludica di attrazione da Luna Park è composta con raro ingegno e il rifacimento la sublima senza nulla togliere al capolavoro originale che tratta con appassionata riverenza. Vi ci vorranno anche decine di ore per portarlo a termine, talvolta potrete dubitare delle vostre capacità, ma non diffidate perché c’è sempre un modo per sconfiggere il gioco ed è scritto con genio nel suo DNA elettronico.
La paura, quella del mostro imbattibile o della ripetizione della sconfitta (“l’inferno è ripetizione” citava Stephen King e chi non vuole giocare con l’inferno per poi riderci su?) serve inoltre per dimenticare, nel tempo breve di qualche tesa ma piacevole ora, le paure quelle vere e persino troppo vere; si tratta di una pietosa consolazione eppure è un dolce, necessario balsamo in tempi oscuri. Ma…
Si dice spesso che Resident Evil sia un horror disimpegnato, composto da un’insieme di idee elementari e granduignolesche, da iperboliche e felici quanto funzionali ingenuità narrative. Ma non è così, anzi come in tanto cinema horror equivocato come di serie B dalla critica “mainstream” durante la fine degli anni settanta e ’80. Il cinema grandissimo di Tobe Hooper, Joe Dante e John Carpenter soprattutto, poi quello di Stuart Gordon, Frank Henenlotter e Brian Yuzna. C’è sempre qualcosa di politico in queste opere, dissimulato o talvolta urlato in maniera così sguaiata da essere frainteso per superficiale. Così è in in Resident Evil, che non esclude una critica al presente, un discorso etico. D’altronde il suo esordio tratta della connivenza tra l’esercito e una casa farmaceutica per creare armi biologiche e di cittadini usati come cavie, ci sono poi il trauma della guerra e della strage di civili in Code Veronica, la religione come oppio dei popoli nel quarto episodio, lo sfruttamento post-colonialista dell’Africa nel quinto, la mostruosità di un’ancestrale aristocrazia in Village…
Resident Evil è senza dubbio un magnifico Luna Park del brivido dove ci sono solo tunnel dell’orrore, dove i mostri sono farlocchi e improbabili. Continuiamo a ribadirlo senza alcuna intenzione negativa o l’idea di offendere la sua grandezza. È un esilarante tunnel dell’orrore.
Fino a quando non si rivela l’umano dietro il mostro orripilante e, dietro la plastica e i meccanismi delle creature che schizzano fuori dal buio per farci paura, s’intravede una sgradevole, effimera ma innegabile ombra: quella del vero. Così oltre quella prima porta potremmo trovarvi il mostro della realtà sulle spalle di quello della finzione.
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