Un tema che spesso impegna le assemblee condominiali e anche i giudici nazionali è rappresentato dalla possibilità di aprire un esercizio commerciale e, nello specifico, un ristorante in un contesto condominiale. Il perché tale iniziativa commerciale può creare tensioni in condominio è di facile intuizione: un ristorante in condominio comporta, in molti casi, esalazioni provenienti dalla canna fumaria condominio, oltre a rumori e schiamazzi che, sovente i condomini non sempre sopportano di buon grado. Per tali motivi abitare sopra un ristorante può rivelarsi non sempre piacevole per molti. Che fare in questi casi? Come difendersi ed evitare che si possa intraprendere una attività di ristorazione in condominio?
Preliminarmente occorre chiarire in quali casi e con quali modalità è possibile aprire un ristorante in condominio. Per rispondere a tale interrogativo, il punto di partenza è rappresentato dal regolamento condominiale. Ogni singolo condomino è legittimato ad aprire un ristorante, solo se l’esercizio di tale iniziativa commerciale non sia espressamente vietata dal regolamento condominiale. Ciò significa che se nel regolamento di condominio non è inserito uno specifico divieto, un condomino proprietario di un locale all’interno di un condominio ha la piena libertà di aprire un ristorante, fermo restando il pieno rispetto dei diritti degli altri condomini all’utilizzo degli spazi comuni senza dover subire pregiudizio. Solo allorquando il regolamento condominiale contenga un divieto esplicito è vietato per il proprietario di un appartamento di adibire l'immobile a pizzeria o ristorante, o altra attività commerciale. Ne consegue che in assenza di tale espresso divieto, il proprietario condomino non deve chiedere all’assemblea condominiale nessun permesso o autorizzazione. Medesime conclusioni valgono nel caso in cui il proprietario dell'immobile, nonchè condomino, decida di concedere in locazione lo spazio al fine di consentire all'affittuario di svolgere attività di ristorazione.
Come rilevato, in presenza di un ristorante in condominio, il regolamento può prevedere delle chiare linee guida per disciplinare la vita condominiale e conciliarla con l’esercizio della attività di ristorazione, a esempio, mediante l'indicazione di orari di apertura e chiusura, delimitazione delle aree comuni da adibire a spazi per l’allestimento di tavoli, sedie, rifiuti ristorante condominio ecc. È evidente che per fare in modo che lo svolgimento di una attività commerciale in condominio si possa conciliare con quella dei condomini è necessario tenere conto dei diversi interessi in gioco e operare un necessario bilanciamento delle esigenze in una ottica di buon senso.
Frequente è il caso in cui, in presenza di un ristorante in condominio, che abbia anche un cortile, si possa prevedere l’utilizzo di una parte dello spazio per l’attività commerciale. È importante precisare che il cortile rientra nel novero dei beni comuni di cui all’art. 1117 c.c. e, pertanto, il diritto all’utilizzo da parte dei condomini deve essere disciplinato dal regolamento condominiale, nel rispetto del principio di cui all’art. 1102 c.c. Tale norma prevede espressamente che ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto. L’applicazione di tale principio in materia condominiale, implica che il singolo non possa ledere il pari diritto di uso, anche solo in forma potenziale, spettante agli altri condòmini. Alla luce di tale norma nel caso di utilizzo del cortile condominiale per l’apposizione di sedie e tavoli, l’assemblea può limitare tale diritto del ristoratore solo per le ragioni indicate nella citata norma del codice civile. Ne consegue che la sistemazione di sedie e tavolini o altri strumenti necessari per l’esercizio dell’attività commerciale nel cortile condominiale sono consentite solo laddove non intralci il diritto di godimento del cortile da parte degli altri condomini, a esempio nel caso di cortile molto ampio.
Altra questione spesso motivo di forti livori in condominio in presenza di un ristorante è l’utilizzo della canna fumaria condominio. La canna fumaria, soprattutto nei casi in cui non rispetti precise prescrizioni tecniche (altezza dello sbocco della canna fumaria oltre un determinato livello, frequente manutenzione ecc.), molto spesso oggetto di interventi normativi, può emettere esalazioni spesso spiacevoli o, in ogni caso, difficilmente accettate dai condomini. Nel rispetto delle indicazioni tecniche, ogni singolo condomino può procedere autonomamente alla installazione della canna fumaria in condominio, anche in aderenza alle pareti esterne dell’edificio a condizione che non ne modifichi la destinazione e non impedisca ad altri di farne analogo uso. Ciò nondimeno, pur non sussistendo uno specifico obbligo di informare l’assemblea dei condomini o di ottenere da questa una forma di autorizzazione o permesso, è tuttavia consigliabile, in ogni caso, interpellare il condominio nella persona dell’amministratore e sottoporre all’attenzione dei comunisti il progetto, al fine di evitare possibili future contestazioni. Un importante limite che il condomino e proprietario di un ristorante deve tenere bene a mente prima di procedere alla installazione di una canna fumaria è il fatto che questa opera non deve arrecare pregiudizio alla stabilità e alla sicurezza dell’edificio e non deve alterare il decoro architettonico (Trib. Roma, 15 luglio 2020, n. 10079).
La ripartizione delle spese relativa alla canna fumaria dipende dal relativo utilizzo. Se la canna fumaria è a uso esclusivo del ristorante, il proprietario di questo è tenuto a sostenere tutte le spese. Ne consegue che nel caso in cui tutti i condomini utilizzino la canna fumaria, i relativi costi devono essere fra questi ripartiti in base ai millesimi o proporzionalmente in base al diverso utilizzo.
Per orientamento unanime della giurisprudenza le esalazioni, provenienti da un ristorante possono integrare un reato di cui all’art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose). Tale fattispecie è configurabile anche in caso in presenza di molestie olfattive, che superano la normale tollerabilità, previsto dall’art. 844 c.c. In assenza di riferimenti normativi chiari sul concetto della normale tollerabilità, la giurisprudenza ha stabilito che, al fine di valutare la presenza o meno della molestia, si deve tener conto del concetto di normale tollerabilità, previsto dall’art. 844 c.c. in un’ottica strettamente individualistica. Il punto maggiormente controverso è la prova del superamento della normale tollerabilità. Non sussistendo delle indicazioni sui valori soglia, occorre misurare tali limiti mediante l’utilizzo di strumenti specifici e anche allorquando neppure tale misurazione con strumenti ad hoc si rivela possibile, in tal caso l’intensità delle emissioni e il giudizio sull’esistenza e sulla non tollerabilità delle stesse ben può basarsi sulle dichiarazioni di testimoni. Ciò specie se questi sono a diretta conoscenza dei fatti, quando tali dichiarazioni non si risolvano nell’espressione di valutazioni meramente soggettive o in giudizi di natura tecnica, ma consistano nei riferimento a quanto oggettivamente percepito dagli stessi dichiaranti.
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